martedì 3 gennaio 2012

Una melanzana dopo l'altra, un filare dopo l'altro

Questo è uno dei post che si è perso nel trasferimento da Splinder, ci sono abbastanza affezionato e dunque lo ripropongo. È datato 14 agosto 2011, di ritorno da una bella esperienza.


Eravamo in 36, da ogni parte d'Italia, o quasi. La lunghezza del viaggio per arrivare a Polistena era solo motivo d'orgoglio. L'estate ruggiva tutta intorno alla scuola elementare di via Trieste, perché è lì che alloggiavamo, accampati, autogestiti, e noi cominciavamo ad incontrarci, pochi per volta, in un pranzo conviviale durato un pomeriggio. Venivamo da realtà anche molto diverse tra loro, ognuno aveva una storia diversa dall'altro e ognuno era ad un punto della sua vita diverso dall'altro, tuttavia c'era nell'aria questa comunione d'intenti, eravamo lì tutti quanti per fare del volontariato con il nostro lavoro, con il nostro sudore, su un bene confiscato alla 'ndrangheta.

Dal giorno seguente ci siamo recati, di buon mattino sul nostro scuolabus giallo con i sedili troppo piccoli per un adulto, sul terreno confiscato alla famiglia Piromalli, che controlla gran parte della Salerno - Reggio Calabria, il porto di Gioia Tauro e dunque buona parte del traffico di coca in Italia e in Europa. La stessa famiglia che quassù al nord possiede gran parte delle risorse immobiliari milanesi, che ha membri che ricoprono ruoli istituzionali importanti. E noi stavamo lì, tra le melanzane e i filari di peperoncino (l'uliveto è stato bruciato pochi mesi prima mandando in fumo 5 anni di lavoro), a sudare, ridere, cantare, conoscersi una melanzana sbucciata dopo l'altra, un'erbaccia sradicata dal peperoncino dopo l'altra.

Non si batte la 'ndrangheta con un campo di melanzane e noi in fondo eravamo poco più che turisti, con le nostre magliette rosse manco fossimo i City Angel, ma si lancia un messaggio. Non noi che dopo qualche giorno si torna a casa e quindi possiamo impegnarci, gettar sudore su quel campo e in quelle strade ma sappiamo che la nostra è poco più che una nobile finzione. Il messaggio vero è quello che lanciano i lavoratori della cooperativa Valle del Marro, che in quel mondo di sogni e incubi rurali ci vivono tutto l'anno, che i rischi se li prendono tutto l'anno, il tutto per mandare un messaggio di legalità, che un'altra Calabria è possibile, che la legalità crea posti di lavoro sicuri, onesti, che ti rendono orgoglioso di quello che fai, come eravamo orgogliosi noi quando ogni giorno tornavamo a casa puzzolenti e sporchi di terra, la terra di quel campo che ogni secondo sentivamo più nostro. Perché quella terra, la Calabria dico, merita di essere salvata. Una terra che ti vomita bellezza addosso da ogni parete, da ogni sbuffo di polvere arsa dal sole, da ogni odore. Una bellezza soffocata da una violenza che non gli appartiene perché a quella terra appartiene la disarmante ospitalità, i ritmi battenti delle tarantelle, gli odori penetranti, i colori vivi di ogni pianta e un cielo dannatamente blu. Una violenza che negli anni ha assopito nell'animo questa terra, lo si vede in ogni casa perennemente in costruzione, dalla spiaggia abbandonata all'Aspromonte, carico delle sue storie di odio e morte. Per questo quel messaggio è importante, per dare orgoglio ad una popolazione imprigionata nella paura e nell'omertà, come la lotta partigiana ridiede orgoglio ad una Nazione, la nostra, che fino a quel momento si era piegata a tutto.

E poi c'eravamo noi, fugaci piccoli dardi rossi di passaggio in quel mondo, che eravamo lì ad emozionarci insieme, nel lavoro, nelle testimonianze dirette di quella violenza a cui assistevamo ogni pomeriggio. Ed era un brivido continuo, dallo sguardo triste di Debora Cartisano, all'irruenza di Francesco Forgione, ai nostri visi sconvolti dal poco dormire, alla voce consumata dal cantare e dall'urlare. All'emozione che ricordo con più affetto, gli occhi di Antonio Napoli, il responsabile della cooperativa che dettava le regole del campo, lucidi mentre, appena abbozzando le parole, ci guardava cantare e ballare i 100 passi. Al brivido più forte, quello che si prova conoscendo e legando con persone molto diverse da te, un legame che poteva nascere così forte solo sotto il lavoro, le vesciche sulle mani, i tagli dovuti alla scarsa perizia nell'usare il pelino. Perché è nel lavoro che questa Repubblica si fonda, nel lavoro ci si unisce ed è nel lavoro che si battono le mafie, non lasciandogliene più il primato (ricordo che la mafia è la prima industria in Italia, un fatturato tre volte quello della Fiat).

E infine si torna a casa, con un po' di nostalgia, molto orgoglio, 35 amici in più, la voglia di ripetere l'esperienza, di raccontarla a quanta più gente possibile e meglio che si può così che ogni brivido che mi è riaffiorato scrivendo queste righe a tratti intricate arrivi a chi mi ascolta.

E state liberi, stiamo liberi.

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