venerdì 14 novembre 2014

Agili idee per i prossimi servizi del TG4

Se non vi hanno privato dei vosti organi sensoriali dovreste tutti sapere che qualche giorno fa l'umanità è riuscita in qualcosa di impressionante: colpire un proiettile con un proiettile più piccolo sparato una decina di anni fa. O, come ufficiosamente viene chiamato, NASA ce lo dovete puppare duro. Tralascio il nocciolo della questione, che in fondo ne avrete letto in lungo ed in largo, attenti e curiosi come solo i miei lettori sanno essere e mi concentro sulle frivolezze della vita. 

Il Tg4 ha pensato bene di fare un servizio anticonformista. Il video, se l'ho visto pure io l'avete visto pure voi, non sto a riassumerlo, sta qua. Dunque ho pensato di dare qualche spunto ai redattori per riempire quei fastidiosi ultimi minuti del TG che non sai mai cosa dire, tipo l'imbarazzo dei saluti ad una festa troppo numerosa.

Cose che la scienza, vecchia troia, ha rovinato al bambino ritardato che si annida, superbo, in ognuno di loro:

Le stelle cadenti non esaudiscono desideri, perché sono, in sostanza, rifiuti dello spazio (o nostri, dallo spazio) che si inceneriscono cadendo. Esattamente come i tuoi desideri.

L'arcobaleno è un effetto ottico, dovuto all'acqua e no, non è il TomTom per la pentola d'oro degli gnomi. 

Non esistono gli gnomi. E chiamarli così è offensivo.

Il cielo è blu e le nuvole sono bianche a causa della grandezza delle particelle che li compongono, non perché il gigante dentro il cui occhio noi viviamo ha la congiuntivite.

I tramonti sono più romantici tanto più c'è inquinamento, per il motivo di cui sopra.

I tuoni non sono il diavolo che gioca a bocce con gli angeli.

Pare che la Terra non sia al centro di nulla, tantomeno dell'universo.


Che poi, ripensandoci, veniamo da un'epoca in cui il Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca diceva cose del genere


E i telegiornali sulla seconda rete nazionale facevano servizi tipo questo o questo.

In fondo, io un miglioramento ce lo sto vedendo.


Spendo due paroline nel merito, giusto perché altrimenti è solo un post scialbo qualunque. Il costo, caro Buffa, è di un ordine grandezza superiore, quindi non oso immaginare quale tono avresti usato se avessi saputo fare il tuo lavoro. Qualcuno su internet fa pure notare che quel costo è di 3,5 euro a testa, distribuiti in 20 anni, circa 20 centesimi a testa all'anno. Il prezzo di una Goleador. Con quella Goleador hanno costruito la sonda e l'hanno spedita nello spazio dopo aver calcolato una traiettoria lunga 10 anni. Pertanto c'è pure un certo numero di persone che grazie a quella Goleador all'anno ha potuto lavorare, pagandosi un affitto, le tasse, dei beni di prima necessità. Insomma con una Goleador a testa abbiam dato ad un certo numero di persone l'opportunità di vivere. Come effetto collaterale c'è che potremmo perfino scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa che possa aiutare l'umanità.

Che poi, personalmente, anche solo il fatto di esserci arrivati, su quel sasso polveroso, è una grande vittoria per l'umanità, capace di far grandi cose per il gusto della curiosità lavorando uniti, come comunità. Chissà che un giorno non ce ne si renda conto e si smetta di gettare via il tempo con le solite balle che ci propiniamo da decenni, iniziando finalmente ad aprire orizzonti che abbiam solo vagamente immaginato nei film.


Vi lascio, per alzar il tono da un post comunque scialbo, con le parole di uno che non si è limitato ad aver una conoscenza profonda della scienza, ma aveva pure imparato a comunicarla a dovere


mercoledì 5 novembre 2014

20 Haiku (brutti), manco fossimo su "L'Oltreuomo"

Questa è un'introduzione, perché, prima di proporvi delle liste tristissime da cui poi prendete ispirazione per gli stati di Facebook, su l'Oltreuomo ci mettono sempre una breve introduzione che alle volte riesce a sollevarsi dalla mediocrità di quanto segue. Sì, avrete già capito che questo sarà un post pieno di invidia verso i redattori di un blog di successo perché riescono sicuramente a raccimolare più figa, pur scrivendo tremende banalità che non facevano ridere nemmeno quando son state pronunciate per la prima volta nel '48. Milleottocento.

No dai, son troppo severo, alcune volte ci prendono, come scoiattoli ciechi.

Comunque, oggi ho fatto un po' di viaggio in treno perché, sapete, vado nei posti, vedo la gente. Per noia mi son messo a produrre questi 20 Haiku. Non tutti rispettano il 5-7-5, ma non siate proprio voi i nazisti della metrica, santamadonna.

The struggle

La cosa diffi
cile degli Haiku sono
le sillabe. Be.


Formalismo

È un buon Haiku
se ha giuste sillabe
e c'è la rana.


Rilassati

Non fa ridere!
Non fa rima! Stai pensando.
E sti gran cazzi,


Trenitalia

Io sul treno
bloccato, luci spente.
Quante bestemmie


Passo io

Voi fermi al
passaggio a livello.
Io dico suca.


Bottoni

Le poesie
che copi in silenzio
sono più belle.


Reminescenze

Verso Utrecht
guardo la nebbia, penso.
Sembra Pavia.


Campanilismo

Sotto a Zwolle
è un'altra nazione.
Il Belgio, forse.


Scienza

Popper lo sapeva,
la falsificabilità,
'na gran cosa no?


Timido romantico

Sempreverde è
l'amore, sai no, cioè
no, niente, vabbè.


Introspezione

Penso spesso che,
dormissi come scopo,
morirei, cazzo!


Rancore

Un pugno ti darò.
Sì, aspetterò,
io mai dimenticherò.


Non fa ridere

Oltreuomo,
con i suoi elenchi
da ritardati.


Collettività

È silenziosa
la carrozza del rientro.
Fame! È tardi!


Cretino

Guardo la notte,
se ricambia lo sguardo,
è la finestra.


Interminabile

La pancia grida!
Ti prego, datti 'na mossa!
Trenista cane.


Ostilità

Soffia il vento,
chino mi incammino
nel freddo cane.


Confessione

Te ne sei accorto!
Sono sbagliati e poi
sono diciotto.

martedì 4 novembre 2014

Intrappolato

È il momento. Disse ingoiando gli ultimi calmanti della giornata sotto la tenue luce dei lampioni che, pacati, si proponevano dalle tende tirate. Pensieri felici, pensieri tranquilli. Un rituale ormai consolidato, un rituale rivelatosi sempre inutile. Come andare a messa ogni domenica.

Senza sogni si muore, lentamente, il corpo ha bisogno di ricaricarsi, un riavvio cerebrale necessario, manco fossimo un'avanzata versione di Windows Vista. Ne era ben consapevole, per questo si forzava, nonostante tutto a rinchiudersi nella sua personalissima prigione ogni notte. Per sopravvivere. Letteralmente.

Il torpore, i muscoli rilassati, la mente sempre meno vigile. Un dolce scivolare nelle fauci del diavolo. Dannazione, qualunque cosa accada so che non è reale, è solo un sogno. Solo un sogno. Era sempre quello il suo ultimo pensiero, tutte le notti. A volte funzionava, la pratica aiuta a riconoscere il vissuto quando lo si rivive nella propria testa e, all'occorrenza, a saperne prendere le distanze. Non importa quanto realistica possa essere un'immagine, una parte di me è consapevole che io lì non c'ero, io questo ho solo immaginato di averlo vissuto e ora sto solo riproducendo quell'immagine artefatta, trasmessa dalla più potente scheda grafica in circolazione. Svegliati, non sei costretto a rimanere in quella casa. Svegliati.

Aprì gli occhi, cercando riferimenti di realtà, un appendino, la sua lampada, i lampioni, quella sensazione spiacevole sul collo tipica del sudore. Il battito torna normale, il fresco del frigorifero va ad infrangersi sulla calura corporea appena sprigionata. Tanto vale riposare un po', in un perenne dormiveglia in attesa della routine.

Ma non è mai così semplice, dopo settimane di prigionia, spolpato di ogni vigore emotivo, il cervello si spegne di nuovo, soffice tra i cuscini. Non è qualcosa di vissuto o immaginato, è qualcosa che sta accadendo ora. Non è reale. O quel telefono squilla sul serio, sarà meglio alzarsi. No, non ce la faceva proprio a forzare se stesso ad uscire da un incubo in divenire, pur consapevole che quella era l'unica altra opzione, una volta addormentato. In isolati momenti, tuttavia, si rendeva conto di vivere situazioni che potevano essere piegate al suo piacere e volere, che non necessariamente doveva subire quelle sbarre. Come criminali che riescono a reinventarsi secondini, riusciva sporadicamente ad esser padrone di quel sogno, a piegare il tormento in qualcosa di diverso, financo sadica vendetta verso quel diavolo. 

E se fossi in realtà sveglio?

Questo lo tormentava, in quei sogni che cominciavano con un suo risveglio e terminavano con il consolidato rituale di cui sopra. Il dubbio, non c'è nulla di più logorante. Erano immagini ed azioni assurde, ma ragionevoli. La sua condanna per un crimine non commesso era questa: trascorrere la giornata come un passeggero, incerto se ne fosse padrone o semplicemente spendesse il tempo a sbirciare sotto la sottana della vita. I sogni erano la prigione della sua mente, a prescindere dallo stato di veglia. Lo erano sempre stati, da aspettativa irraggiungibile dalle miserie della realtà a cinico, per nulla distaccato, sguardo su ogni possibilità passata e presente. 

Un inferno tanto personale, tanto consapevole della propria deflagrante potenza da rendere ogni altro problema piccolo, insignificante. Come se l'esperienza dell'orrore, con il suo traumatico bagaglio, i dubbi, le insicurezze, potesse in fondo dare quella spinta a riprendere a dar calci nelle palle della vita.

In quel momento si risvegliò, sudato. E andò a riaprire il frigorifero.

I'll see you in the next life, wake me up for meals

martedì 28 ottobre 2014

BOOM. Di esplosioni, soluzioni e genuina felicità.

Provate mai la sensazione di essere sul punto di esplodere? 

Sapete, dopo lunghi periodi della vita in cui mi crogiolo in frivolezze e velleità, sospingendo la mia mediocrità da casa al lavoro, nel presunto eroico tentativo di vivere le due o tre vite che mi son cucito addosso, consapevole di non essere nemmeno lontanamente vicino al potenziale sporadicamente espresso, mi ritrovo nei pochi metri quadri che chiamo casa ad osservare i topi che si litigano l'insalata sul pavimento da qualche giorno. Faccio solo questo, li guardo sguazzare nelle macchie di vino e birra misto a cenere e rifletto sulla pochezza di una simile esistenza. Lontano da ogni cosa che ho sempre definito casa, immerso in quella che si presuppone essere la vita che mi costruisco.

Ecco, quello è il punto, il momento in cui esplodo di voglia di vivere. Quello è il momento in cui apprezzo il soprendente ardore vitale che mi pompa il sangue nelle vene, attiva milioni di idee nel mio cervello, rivalutando, analizzando, risolvendo ogni singolo problema che ho affrontato e che potrei mai dover affrontare. Non è questo, sia chiaro, questo è il momento in cui verso del vino rosso e riempio la stanza di fumo e B.B. King. Questo potrebbe essere tranquillamente annoverato tra i momenti descritti nel primo capoverso. Sempre che capoverso sia la definizione adatta. Non sono nemmeno così sicuro. Ma siam qui mica per prenderci sul serio, per dio, state cazzeggiando su internet.

La verità è che se non scrivo non sugello la gioia di vivere in qualcosa che un giorno posso andarmi a riguardare, ricordando ogni commento, discussione e dialogo che queste poche righe potrebbero mai suscitare, soprattutto se non produrranno nulla da ricordare. Perché sempre di gioia in fondo si tratta, per quanto miserabile possa essere lo stato d'animo lasciato trasudare, non c'è nulla che in fondo mi dia più piacere di vedere la pagina riempirsi, inseguendo le dita via via più agili, aggrovigliandosi in una metadescrizione dell'attimo. Più che il vibrare delle corde sotto l'archetto, più dell'adrenalina di infilare dei guantoni e provare a sopravvivere alcuni minuti di fronte a qualcuno ben più preparato ed in forma di te e sì, a volte pure più della sicurezza che l'equazione tanto sudata si sia rivelata corretta.

Sinistro, destro, evita il sinistro di risposa, colpisci il mento e scaraventa ogni violenza accumulata su quell'unico, liberatorio, gancio appena sotto le costole. Sinistro in allontanamento, non deve capire nemmeno da che parte sei andato. Respira.

Sarebbe dovuta essere la soluzione, fin dal principio.

Esplodere dunque, apprezzare veramente ogni cosa, per quanto ben mascherata forse in un alone di triste solitudine e, ammettiamolo, genuino se pur occasionale disprezzo per se stessi. Per avere finalmente un fugace sguardo verso la lucida follia che si è contribuito a creare intorno a se stessi.

Ad esempio, quando, durante il cammino, l'umanità ha deciso che le vite altrui, o ancor peggio l'immagine altrui della propria vita, dovessero avere una così ostentata rilevanza al punto da opprimere una già di suo stentata esistenza? In che momento è diventato tanto importante che persone bene o male estranee a ogni aspetto del nostro quotidiano sapessero quanto poco disgustosa sia la nostra vita? O anche che sapessero quanto lo fosse. Lavoro tanto, è giusto che la gente lo sappia. Che poi se arrivi a quantificare il tuo lavoro tanto direi che hai sbagliato occupazione. Faccio del bene, è giusto che la gente lo sappia. Non accetterò che qualcuno non informato possa farsi un'opinione sbagliata del mio quotidiano, non trovi interessanti le piccole avventure che decido di esporre al pubblico giudizio, non sia d'accordo con me. Non dico che sia sbagliato, mi incuriosisce il perché, una domanda forse banale di cui francamente mi sfugge la risposta, per quanto ne possa rimanere inconsapevolmente coinvolto. Che si faccia per suscitare invidia? Per un senso di giustizia verso i propri sforzi (e, di nuovo, se son sforzi stai sbagliando qualcosa)? Per l'approvazione di persone con cui, il più delle volte, non condivideremo nemmeno un vodkalemon annacquato?

Guardiamoci in faccia, facciamo del nostro meglio, il più delle volte. Fine. Trasciniamo sollazzi spesso inutili, aspettando con quanta più dignità che morte sopraggiunga. E questa è pura, indiscriminata, felicità. Sapere di riuscire a veleggiare sospinti da quel vento e non da altri ripieghi. 

Per altro la aspettiamo perfino nella speranza che, dopo cotanto dolore per arrivarci, essa, l'ultimo passaggio, ne sia totalmente privo. Di dolore intendo.

Farà un male cane. Fa un male cane tutte le volte.

giovedì 22 maggio 2014

Notturno - Biciclette

In quattro mura senza angoli retti ti aggiri, inquieto parli da solo, rubi sorsi dai bicchieri ormai disseminati per l'appartamento. Il pavimento inclinato, la luce del giorno che va a morire dietro il campanile.
Devi uscire da qui, non devi pensare. Inforchi la bici, ti fai scivolare addosso le luci di una città senza motivo in festa, la fresca aria di metà maggio ti culla nel tuo fumare come una locomotiva in salita. Non provi più quel disgusto sulla pelle verso quella società ipocrita che ti circondava, no, ora è qualcosa di viscerale, qualcosa che ti porti dentro perché con quelle immagini, quegli esempi, tuo malgrado, ci sei dovuto crescere. Quegli esempi ti sono entrati dentro, ti han scavato solchi che hai imparato a non voler superare o per lo meno a provarci, solchi che ti permettono di riconoscere tali esempi, solchi che ti ricordano di aver il controllo.

Fiancheggi il canale, file di alberi ordinati, innaturali, ti passano silenziose dalla parte opposta, accartocci la lattina che ti ha fatto compagnia fino a poco fa, la butti nello zaino aperto per prenderne un'altra, cerchi di non pensare, ma quei solchi ti si riaprono addosso. Come se gli ultimi anni non fossero stati che un vestire la maschera di chi si sa integrare, di chi sa accettare l'errore reiterato altrui. Forse qui stai meglio davvero, se non fossi obbligato per scelte e sfortuna a dover sempre guardare al punto da cui arrivi, alle sue contraddizioni, alla sua "bellezza nonostante". Forse solo non capisci il qui.

Decidi di non continuare il giro, tiri dritto, ora la città sta veramente scivolando via, si aprono i prati quasi subito, il vento si fa più fresco e violento, portando odore di campi e laghi. Oscurità, vecchia compagna di silenzi, di emozioni genuine. Siamo gente che non va a votare quando dovrebbe e si lamenta per gli anni rimanenti del fatto che non possa votare. Affondi i piedi nei pedali, non hai la minima idea di dove quel muro nero davanti a te possa portarti, acceleri. Forse sei tu, forse è solo il vento. Siamo gente che le tasse non le vuol pagare perché in fondo niente di quello cui le tue tasse servono funziona a dovere. Siamo gente che ama i loop.

Non pensare, stai andando bene, accelera. Le lattine tintinnano nello zaino semi aperto, ne sostituisci un'altra. Sudi e porti la mente sui solchi, ti si aprono più tumultuosi. I solchi sono il motivo per cui ti racconti di essere diverso. Il vento è freddo, non stai andando così forte, stai sudando per i motivi sbagliati. Controlla il respiro, riporta il cuore ad un ritmo normale, usa il cervello.

Il muro nero si abbatte, quattro case nel niente ti dicono che è ora di girare la bici. Si, ma verso dove? In che punto posso scappare ora? Ti tocchi la tasca, nessun segnale. Poi l'altra, niente. Riguardi l'oscurità, ora carnefice del tuo smarrimento, dello smarrimento delle linee che vuoi imprimerti sulla pelle. Hai solo 3 lattine di autonomia. Siamo gente che nemmeno prova a capire qualcosa di scientifico, qualora ci sia un torbido racconto su internet che dimostrerebbe il contrario. Siamo gente cui non piacciono i fatti.

Segui l'odore di lago, che quello di campi ti porterebbe probabilmente in un mare di merda. Sfiori le tasche, ti è sembrato di aver sentito qualcosa. Hai sentito solo il tuo fallimento nel dominare i pensieri. Ritrovi la strada, determinato, sopravviverai, ti fanno male le gambe, ma i solchi aiutano. La brezza ora ti spinge, come a dire che è ora di tornare, che sei pronto a riconoscere il lupo travestito da pecora che giustifica il sangue intorno alle sue fauci con un non ancora dimostrato "siam pur sempre umani".

L'alba non si fa attendere, mentre bruci l'ennesimo tabacco arrotolato, la bici è stanca 3 piani più sotto. L'umanità per giustificare le proprie perverse voglie di distruggere tutto, l'essersi voluto cucire addosso l'abito di chi fa e predica la cosa giusta per far passare più inosservate debolezze sintomo di una profonda, ben radicata, crudeltà verso il prossimo. Che sia uno o l'intero sistema.

Si chiama ipocrisia, riassunta nel fatto che sei maleducato se mastichi con la bocca aperta, quando l'alternativa è essere considerato uno con la faccia da coglione quando mastica con la bocca chiusa. Che poi è la mia dimostrazione preferita della non esistenza di Dio.

Ti trascini nello stato fluttuante tra vita e svenimento verso il letto, ormai incapace di riconoscere cosa stia accadendo per davvero e cosa sia solo nella tua testa stanca di tener a bada se stessa.

Quanto sei dentro le descrizioni che hai di ciò che vedi? Quanto ne sei in realtà protagonista? Quanto riuscirai a non rientrarci? Quanto ancora resisterai mentre fa giorno?

No, tu sei diverso, tu vedi queste cose perché ne sei fuori, tu hai i solchi. Ovunque, laceranti, profondi, indelebili solchi.

Se parlassi la lingua della gente che ho intorno sarebbe un inferno.

mercoledì 12 marzo 2014

Di imbarazzo e stanze piccole.

Sono giorni in cui un video, che poi è una pubblicità, viene visualizzato milioni e milioni di volte perché sa racchiudere quell'umano imbarazzo che grossomodo tutti han sperimentato almeno una volta nella vita. Sono giorni in cui un giornale pubblica storielle adolescenziali che grossomodo tutti hanno vissuto o osservato almeno una volta, storielle che colpiscono giusto perché sono sul giornale, perché accadono sporadicamente qua e là nel mondo e non c'è nulla di bizzarro, ma su un quotidiano possono diventare giganti, tetre, perverse (vi ricordate il diario di Sara Scazzi spiattellato in prima serata con musica appropriata? Io si, pezzidimerda). Certo, avrebbero potuto sottolineare di più che non è un'inchiesta, ma giusto il racconto di una storia, simile magari a tante, ma non a molte. Certo, avrebbero potuto fare una piccola riflessione, giusto per non essere un lancio d'agenzia ma un articolo di giornale. Ma in fondo, al di là del lavoro approssimativo della Bea, credo che più che l'imbarazzo per una storia di libertà sessuale che potrebbe avere della sociopatia dentro, se ne parli tanto perché sotto sotto una buona fetta di lettori ha gradito quel centinaio di parole che ha dato loro immagini mentali utili per i loro momenti di intima masturbazione. Perché si può fare i difensori della dignità della donna, i bigotti indignati, ma c'è una buona fetta di popolazione che non disdegnerebbe sbattersi senza responsabilità e ritegno una quattordicenne, poco importa se ci sono 30 o più anni di differenza, scoparsela perché "tanto lo vuole" è l'intimo desiderio di quella fetta ben amalgamata nella popolazione. Per questo c'è una legge e per questo non si fa educazione sessuale nelle scuole.

Storie di imbarazzo o da imbarazzo. Pare che tirino e quindi ve ne puppate una.

Si entra con il passo di chi è probabilmente in ritardo, un silenzio quasi religioso, ti pare quasi che i tuoi passi possano riecheggiare nei corridoi.
Salve, avrei un appuntamento.
Si accomodi prego, arriva subito.

Si accomodi, come se fosse comodo aspettare lì. La sala d'aspetto sarà 15 metri quadri, 8 sedie blu, qualche rivista ammassata che non legge mai nessuno. Ci sono altre 4 persone già, al tuo arrivo scambi un mezzo sorriso ad occhi bassi con al massimo due di loro. Ti siedi e ringrazi di non conoscere nessuno. Ognuno cerca di evitare gli sguardi altrui, c'è solo uno che per ingannare il nervosismo osserva con discrezione ogni movimento altrui per scriverci un pezzo sul blog. La testa è sempre mezza china, lo sguardo fisso, può esserci una gamba che saltella nervosa, quello dipende dal soggetto, ma in fondo il comune denominatore sono le mani. Tutti nascondono le mani, c'è chi tiene le braccia conserte, chi le ha sotto le cosce, chi giochicchia con le punte dei capelli, chi le avvolge attorno ad un touchscreen. Te ne accorgi quando noti il tremolio nelle tue.

I minuti si scandiscono con l'arrivo di figure differenti dal sorriso rassicurante che abbozzano nomi mal pronunciati.

Eppure basterebbe solo iniziare ad ascoltarsi magari, quattro chiacchere sul tempo, qualcosa che ammorbidisca l'aria sopra i capi chini.

Inizi a respirare cercando di sembrare meno nudo, la nudità di avere persone nel tuo stesso identico stato di imbarazzo ansiogeno.
Pochi minuti e passerà tutto, ti ripeti, pochi minuti e potrò alzarmi e camminare via da questa situazione in cui chiunque potrebbe migliorare le cose ma in cui nessuno, soprattutto tu, accumulerà mai abbastanza coraggio per farlo.

È il tuo momento. Dai, alzati e salutali, un sorriso può far sempre bene a degli sconosciuti. Non lo fai, con lo sguardo basso sei arrivato e te ne vai allo stesso modo. Abbandoni quei 15 metri quadri di storie non raccontate e vai. Perché una volta in quei 15 metri quadri, anche se non è un'unità di crisi, è come se tutti, compreso te forse per condizionamento, avessero la faccia di chi in crisi ci entrerebbe se si dovesse aspettare oltre o peggio rimandare.

Ripassarci davanti qualche decina di minuti dopo ti cambia lo sguardo ed il sorriso, ma quell'atmosfera di imbarazzata nudità condivisa riesce lo stesso a colpirti. Non scambi mezzo sguardo e torni a cercare il sole sulla faccia.

La prossima volta sarà più facile, la prossima volta saranno meno sconosciuti, la prossima volta, te lo ripeti, sorriderai e renderai la giornata di qualcuno più leggera per un secondo, renderai la tua più significativa per un secondo.

In fondo basterbbe farci compagnia.


No, non è il racconto di chi va a donare sperma. Quello lo pubblico verso Pasqua.

martedì 18 febbraio 2014

Rapido

Avrei voluto saper scrivere poesie, invece vado solo a capo ogni tanto.
Il sole violento
dal finestrino
entra contento
che le foto così non le posso fare
questo è il più grande tormento.

Saper scrivere poesie è quella cosa che ti semplifica la vita. Oddio, si vive anche senza, ma francamente darebbe tutto un altro tono al mio guardarmi nelle palle degli occhi col tramonto sopra la Svizzera.

Altro viaggio che va a tramontare, altro abbraccio che urla non partire, vieni con me, altre lacrime sorridenti come nervose, sguardi abbassati dalla vergogna, dalla disumanità, dalla rabbia.

Hai visto come con un rapido volo si possa tornare tra governi cambiati senza spiegazioni, treni lenti, spazzatura e cene sostanziose. Basta un rapido volo per fermare il tremolio, per mettere ordine, affrontare una vita lontana solo geograficamente. Basterebbero le giuste telefonate, ma anche quel rapido, indolore, volo per prendere la vita a calci nelle palle.

Basterà.
Vorrei imitare
questo paese
adagiato
nel suo camice
di neve.



Gatto.

venerdì 7 febbraio 2014

Moonlight drive

Let's swim to the moon

Alberi ordinati intorno a me, malti sudati come solo un sette febbraio può regalarti. Avrei dovuto portare la giacca.

Penetrate the evenin' that the city sleeps to hide

Mi addentro, conscio di non saper ritrovare la strada. Non c'è mai stata una strada. Mi posso raccontare di avere una destinazione, quella di partenza per altro, ma non ci sono cammini, ci sono buche, sassi acuminati, umidità e mille animali invisibili intorno a me.

Let's swim out tonight, love

Il bosco può farti sentire piccolo piccolo, dalla facilità con cui l'hai raggiunto non l'avresti detto, dopo quel lago poi.

It's our turn to try 

 
Mi circondo di predatori intimoriti. Fingono insicurezze, abbindolano la preda- La preda sono io.

Parked beside the ocean

Sfilo le cuffie, tengo il sottofondo alla nuova sinfonia. Sinfonia svuotata di qualcosa, per colpa della mia presenza, parti dell'insieme che non si mostrano, timorose, per il mio respiro, i miei passi spaesati. L'alba è sempre vicina e io sarò sempre qui, aspettando un predatore adatto.

On our moonlight drive.


giovedì 6 febbraio 2014

And I ride, and I ride

Buttiamo pesanti bracciate, implorando il fresco dell'aria, boccheggiando nel nostro lago di fuoco, in balia di correnti interne che proviamo a capire. Alle volte si arriva financo a non provare più dolore a scavare, consumandosi le carni per arrivare dall'altra parte, facendosi evaporare sudore e lacrime dalle guance nell'ennesimo vano tentativo di non inalare sulfurea rovente aria.

La traversata nel fuoco, la prova di coraggio verso se stessi, sulla spinta di un fuoco più violento che custodiamo dentro. Un fuoco che ci spinge sulle tastiere della vita, incoscienti e solitari, come impreparati ad ogni cosa ben prevista. In buona sostanza non si sta che ricercando come andare a finire.

Affondiamo le nostre braccia, in smorfie di dolore che a tratti si fan sorrisi nel vedere la riva avvicinarsi. Il bosco, ignifugo, circonda il lago e rimane rassicurante, quasi a sbeffeggiarci quando il nostro stile si fa più affannoso. Lui ed il suo brulicare di vitalità, il suo muschio, l'umido abbraccio della freschezza.

Arriveremo in un altrove per renderlo qui, per rendere ogni altro altrove un lontano puntino nel lago, una bolla di lava esplosa che ci ha bruciato i capelli, nulla più. Danzeremo nella fresca notte per curare le ustioni, facendo scivolare i muri sotto le nostre ombre.

Basta continuare a spingere con mani e braccia. Staremo bene da farci schifo.

mercoledì 5 febbraio 2014

Bianco

Una stanza vuota, il tavolo nascosto sotto le carte, i muri bianchi ed immacolati, una sedia buttata per caso, un cavalletto, macchie sul pavimento consumato. Il sole entrava prepotente dalle ampie finestre, si diffondeva repentino in ogni angolo, fin quasi ad appiattire la scena. La profondità doveva venire da dentro. Dipingeva nutrendosi d'aria, di storie impresse in attimi rubati dalla vita, di antidolorifici disciolti in bicchieri di latte, perché la bellezza, in ogni forma, immaginata o scolpita con la grafite e il pelo di bue, avrebbe sempre richiesto il suo tributo. Il passato veniva accumulato in angusti sgabuzzini ormai pieni di polvere e minuscole forme di vita che avidamente ne erodevano i contorni. Si lasciava riempire dalla luce fin dalle prime ore, ne osservava e descriveva i giochi, cercando di carpirne i segreti, cercando di capire la notte.

Osservava il bianco uniforme della propria vita con la felicità di chi ha uno sgabuzzino pieno d'acari, si immergeva nella vita come corpo estraneo, spiando, assorbendo i colori altrui, talvolta financo inquinandone l'invecchiamento. Tornava nella sua bolla di luce a vomitare dalle dita ogni fermo immagine, a curare le ferite col suo latte speciale, a stipare il suo sgabuzzino fino al limite estremo.

Ogni storia ha bisogno di un motore, ogni tela di una spinta dopo i sedativi. A lui non mancava, al punto che la grande casa di vuoto ormai aveva solo quella stanza, ogni giorno senza sosta, inalando i colorati respiri della vita spiata faceva. Una rivalità, quello era il motore, una frustrazione verso chi avrebbe sempre mosso le mani sul bianco meglio di lui, verso chi non riempiva solo stanze, verso chi non creava solo sgabuzzini, verso chi non consumava la luce con gli occhi, verso chi non meritava quella luce.

Sorso.

Tutto si offuscava, avrebbe smesso di sporcare la luce inalata, avrebbe creato quel candore, l'ultimo, che lo circondava dentro di sé.

Un pennello affilato, un pennello speciale, il pennello del riscatto, copiose macchie comparivano sotto l'impeto del suo lavoro, movimenti decisi, ad imprimere la propria libertà di essere più di chiunque, più di ogni cosa, per un'ora come per tutta la vita. Delineava contorni, sfumava luci riflesse e fatte ormai proprie.

Ecco. Raggiunta quella bellezza, quella di cui per anni ha abbozzato maldestre prove ora accatastate in ogni luogo. Gli ultimi ritocchi si fanno con un sorriso. Il gran finale di un crescendo. Alla faccia di quel bastardo.

Sorso. Intorpidimento. Troppe aggiunte a questo latte. Ma che colori caldi questo tramonto!

I paramedici chiamati dai vicini allarmati dal cattivo odore dovettero chiamare i pompieri per aprirsi un varco tra le cataste di tele e blocchi intonsi, non sapevano nemmeno dire se ci fossero dei mobili. Lo trovarono seduto verso la finestra con l'ennesima tela bianca sul cavalletto, il viso consumato in una smorfia sorridente. Una rossa pozza secca tutto intorno a lui, adagiato sulla sedia nudo, il sole riempiva uniforme e violento ogni angolo, nessuno notò con quanta cura si era premurato che ogni schizzo sul proprio corpo fosse esattamente dove doveva essere. Di quanto armoniosa fosse la posizione del bisturi sul pavimento. Nessuno lo notò, distratti dal bianco impolverato tutto intorno a loro.

Nessuno.

venerdì 24 gennaio 2014

I miei sogni di libertà

La piccola lampada sul tavolo non bastava nemmeno ad illuminare i pochi oggetti che aveva, ma tanto bastava. La penombra è un abbraccio di brillante fascino. Fuori la città addormentata stava ignara come solo la fase REM ti può rendere. Era quella convinzione, di essere l'unico sveglio in tutta la città, che lo rendeva così pacifico.
Cercava sovente risposte sui fondi delle bottiglie, raramente vi trovava altro che un dolce intorpedimento dei sensi e una insensata tendenza ad accentuare le emozioni, sorrisi o lacrime che fossero. Saliva lentamente di gradazione, in maniera inesorabile trangugiava malti e luppoli di vario tipo e preparazione, lasciava l'immaginazione vagare e le sue pagine bianche riempirsi di quella storia che non si sarebbe mai compiuta.
Qualche volta era anche solito abbandonare le quattro claustrofobiche mura del suo appartamento appena arredato per uscire, in simil pigiama sfidando le sferzate del mattino non ancora nato, e osservare dal basso quella stessa città che, già con le prime luci dell'alba, si attiverà con le sue formiche operose. Piccoli puntini che osserverà con gli occhi a mezzasta e l'alito acido di chi ha bevuto troppo la sera prima, osserverà dall'alto, dietro il vetro che lo separa dalla vita degli altri.

Tutto quello che mi serve è una pagina bianca ed una storia da raccontare.

Così si diceva per giustificare il suo non voler prendere parte alla follia collettiva chiamata routine, quella che da sempre aveva alimentato lo slancio creativo, la corsa al collo della bottiglia e il lento spegnimento dell'amor proprio. Un susseguirsi di eventi sempre uguali a loro stessi, la frustrazione di non poter mai, malgrado ogni sforzo, cambiare le cose. Che fosse grazie alla sua creatività o con piccoli gesti quotidiani, il mucchio di formiche operose, il giorno dopo, si sarebbe comportato allo stesso modo.

Dunque osservava la vita da lontano, piccola e distante, si nutriva appena per sopravvivere, si attaccava al proprio intorpidimento ed immaginava. Volava col pensiero in situazioni reali ma supposte, dimostrando una chiara capacità di chiaroveggenza ad un occhio esterno. Occhio miope nel vedere che era fredda descrizione di un futuro già avvenuto.

Scriveva, sempre delle stesse cose, di tutte quelle possibili, scriveva di ciò che il tempo aveva sgretolato e di ciò che ancora per un po' avrebbe resistito.

Sorso.

Formicolio tra le sinapsi.

Era il momento di correre più veloce, di lasciare che la pagina si sporcasse, di non ostacolare la storia, identica a dieci pagine prima, diversa in tutto e per tutto. I personaggi del suo mondo supposto cercavano di venire a capo di un rompicapo truccato, lui onnipotente si sfogava giocondo nel rendere interessante la vita altrimenti patetica di ognuno di loro. Tesseva fili che tagliava con sadico potere.

Sorso, si sale sempre più in direzione di quella esplosione tanto voluta.

La storia da sempre supposta si era oramai delineata in un incessante battere di tasti, non restava che concludere, decidere cosa al lettore doveva rimanere di quella notte lunga giorni, ogni pedina era con sapienza stata mossa per toccare i tasti di una vita ormai lontana ma così ben dipinta.

Sarebbe stata gioia o crudele fallimento. L'amarezza o un sorriso.

In quel momento era finalmente padrone, in quel momento poteva smettere di bere, di cercare di offuscare la raggiunta lucidità.

Saltò nella libertà.
L'impatto fu notato la mattina dopo, dal giornalaio, la prima di tutte le formiche del giorno.

domenica 12 gennaio 2014

Fredda roccia

Perché io finisca sempre qui, lo ammetto, non lo so spiegare davvero. Mi crogiolo nel mio universo di parole a tratti ben scelte, di pensieri a tratti profondi, di equazioni a tratti eleganti, di facce gialle sorridenti, di visualizzato alle, di post scritti con le migliori intenzioni, sempre le stesse, ma che non portano più da qualche parte come un tempo.

La verità è che queste pagine potrebbero essere la chiave, questo crogiolarsi in attesa che un'idea originale salti fuori, che si viva su quel tratto per l'ennesima volta, che quindi qualcosa, per qualcuno appollaiato sul proprio letto in attesa di finire la giornata, rimanga. Ma qui, caro sfaccendato lettore, le cose si fanno complicate, è l'ansia da prestazione che va a subentrare. Dunque, per lo stesso motivo per cui lo fai con le donne, bevi per scrivere. Esiste un limite, nel magico mondo dell'accoppiamento quel limite, il limite del nonimportaquantotiimpegni, è proporzionale alla bellezza del fiore che stai per cogliere, ma nella scrittura, che è un mettersi a nudo diverso ma non meno potente, è anche meno facile da individuare. Perché la proporzionalità non sta nel legame fisico o emotivo di un altro essere umano, ma nella violenza del pensiero nella tua testa, nella tua capacità di guardarti dentro, nella tua volontà di colpire il disattento lettore.

Il desiderio che ogni interazione con queste pagine, con i pensieri, sia d'impatto assoluto verso il lettore è l'ansia da prestazione di cui sopra. Ha in alcuni casi funzionato, robe da piegare le ginocchia come un bacio ben dato, ma, appunto, non può essere a comando, non può essere sempre. Questo combattere ad ogni post contro l'anonimato può financo distruggerti, ma è lì che ti ricordi che sei una roccia, che sai navigare nella merda come nel nulla fino ad una nuova boccata dell'ossigeno caloroso del lettore. Certo, a parlare di nulla finisci per passare per uno di quei giornalisti di Rolling Stones (scusami, dovevo), ma son anche i rischi del nulla, che la merda è facile da spalar via, sei una roccia, lo sei da un po', sia bene come si affonda facilmente così come sai quanto solidamente tu possa lasciartela alle spalle. Col nulla si han più timori, analoghi ai precedenti. Perché il lettore non è la scialba ragazzetta che vuoi intrattenere giusto il tempo di finire il tuo gin&tonic annacquato, il lettore lo vuoi far tornare, vuoi che ti esprima le sue emozioni, che tra le sconclusionate righe delle tue pagine si ritrovi a suo agio al punto da iniziare a guardarsi dentro lui stesso.

Dunque forse devo smettere di pensare a quanto devo dire e semplicemente cominciare ad esprimermi, che la lontananza dalla vita che descrivevo si fa sentire anche nell'incertezza delle dita che corrono su questa tastiera e non ero certo pronto a tutto ciò. Lasci tutto quello che hai, letteralmente, e lo ritrovi solo in schermi retroilluminati, che filtrano la vita altrui, che ti tengono lontano. Devo forse smettere di attaccarmi all'enfasi per negare a me stesso la verità (che per quanto trasparenti siano e quanto lo siano le persone al di là di quegli schermi, saranno sempre un filtro, una proiezione), dando per altro uno sgradevole senso di arteficiosità a chi sta dall'altra parte. Insomma è forse l'ora di far finire l'adolescenza, di tornare a dipingere, di rispettarsi di più. Perché sei una roccia, lo sei sempre stato, hai navigato nella merda come nel nulla, ne sei uscito indistruttibile, determinato, sicuro. La bellezza è qualcosa che ti sa rendere insicuro in una maniera fin troppo profonda, è l'estasi, l'agonia a tratti, che ti sa pervadere quando capisci questo semplice concetto, ma rimani una roccia. Forse hai smesso di esserlo superficialmente, ed era anche ora, ma roccia rimarrai e per gli altri roccia resterai.


Ora, pezzidimerda, trovatemi un altro blogger che si prodiga con tanta epicità a parlarvi di masturbazione.

Chimica.

venerdì 10 gennaio 2014

La rabbia ed altre piccolezze

Non ho mai avuto paura degli allarmi, morirò in un incendio in una scuola. 

In aeroporto mi sembra di viverci, stringo superficiali amicizie con vari personaggi che popolano le sale d'attesa, ho financo cominciato a dar nomi falsi e false vite, tanto per variare un po' la conversazione tra un viaggio e l'altro. Ho impacchettato tutto al grammo, il violino sta volta me lo porto sulla spalla, che fa tanto figo e la gente ti guarda come se lo sapessi davvero suonare. Attraverso i controlli stancamente, quel contatto umano sgradito da entrambi i partecipanti, ormai non ci si guarda più nemmeno negli occhi, non c'è più sentimento. Forse dovrei tagliarmi la barba una volta tanto.

In aereo dormo come sempre dal momento in cui tocco il sedile a quando l'accelerazione vince la gravità, giusto per vedere il susseguirsi di momenti perfetti vissuti scivolare via tra i fili d'erba della pista, l'estenuante pianura diventare macchia ed in infine il mare di lava bianca e spumosa. Attendo il saluto delle Alpi, che ora si presentano giallastre sotto il sole serale. Scompaiono sotto nuvole veloci, il Bel Paese si fa lontano di nuovo, con le sue pozzanghere e la sua ostilità. Sfreccia via Milano, con la sua archietettura così squadratamente fascista, i suoi angoli che ti esplodono in faccia senza preavviso, i suoi muri scritti da Sesto San Giovanni al Duomo. Sfreccia via Roma, con le sue fermate della metro poco utili, le macchine perennemente in coda e le rovine di uno splendore che fu che ti impediscono di tornare a casa col sacchetto della spesa rotto. Scivolano vie le fermate della rossa, vecchia compagna di messaggi e bestemmie (solo a Conciliazione).

Stiamo atterrando, è il quarto tentativo, tira un vento che ci fa oscillare, dobbiamo rinunciare di nuovo. Non ho mai avuto paura degli allarmi, morirò in un incendio in una scuola. Chi mi sta accando piange dalla paura, è qualcosa che non capita spesso di vedere, l'incontrollabile tremolio di un corpo completamente in balia del panico, che si regge ai poggiabraccia per non muoversi troppo. Parte dal labbro, si incalana in un tremolio di guancia, infine sgorgano muco e lacrime, cerca di nasconderlo ma il tremolio lo paralizza, la paura dello schianto, del vento che riesci per fino a sentire fuori dal nostro spesso involucro di metallo, non è mai successo di dover provare l'atterraggio 5 volte, per forza stiamo per morire.

Siamo stati per due ore a diecimila metri da terra e hai paura ora che saremo a 30 metri massimo?

No, non ha aiutato. Si apre una cappelliera, una valigia scivola fuori con dei cappotti, penso che in fondo è un bene che il violino sia incastrato dietro a bagagli troppo grandi per essere a mano. 

Alla fine tocchiamo terra, tutti respirano sollevati, cerco il segnalibro di quel libro, che mi scoccia perdere le cose, chissà dove cazzo è finito, è fastidioso dover usare la quarta di copertina dopo pagina 30. Niente.

Ritorno nella mia prigione con cucina condivisa, attendendo risposte che mai arriveranno, perché in fondo ora saremo troppo lontani, voi e me intendo, perché qualunque risposta possa colmare questi chilometri messi controvoglia quando mi stavo abituando nuovamente al piacere del carboidrato gratuito, al chiamare i posti col nome della via, alle bandiere gialle rosa ed arancio. 

Sale con poco preavviso la rabbia su di me, che non ho mai reagito ad un allarme e morirò in un incendio in una scuola, la rabbia di doversene andare dal posto dove in realtà si vorrebbe stare, di non aver potuto affrontare la situazione a piene mani, di tornare epistolari con una vita ormai lontana. Quella rabbia che si ha tornando a casa e non sentendovicisi più, in una camera che non contiene più le tue cose, i tuoi pensieri. Che poi si finisce in un'altra camera che casa ancora non lo è anche se, fortunatamente, che tu lo voglia o no, lo diventerà. Monta dalle estremità e ti si piazza sul petto, provi a scacciarla con la violenza del tuo respiro, rimane, non scompare, devi colpire qualcosa, devi prendere la pioggia di faccia. Niente. Ti si è incastonata dentro, come il passato che non puoi cancellare, come il dramma che sconfiggi quotidianamente chiamato routine. Ti accorgi che oramai di politica interna sai parlare come sai parlare di calcio, saper due nomi, un fatto qua e là e grossomodo puoi parlarne con chiunque per ore sembrando pure un mezzo esperto. La tristezza del non essere i soli, dell'indistinguibilità tra le due cose.

Svanisce grossomodo così come era arrivata, vibrante nelle tue membra pronte a scattare ma in fondo stanche. Guardi tutto bruciare, i lapilli son qualcosa che hai sempre apprezzato. Tornerai, casa tua non sai bene come definirla, ma in fondo è chi la popola che ti importa, che la si trovi tra le spine di birra ed i tavoli resi appiccosi da una media rovesciata o tra le fermate della rossa. 

Qualcosa non ti renderà mai tranquillo, ma non ho mai avuto paura degli allarmi, morirò in un incendio in una scuola.

Ci sfonderemo di cibo a due passi da Lotto.