Non ho mai avuto paura degli allarmi, morirò in un incendio in una scuola.
In aeroporto mi sembra di viverci, stringo superficiali amicizie con vari personaggi che popolano le sale d'attesa, ho financo cominciato a dar nomi falsi e false vite, tanto per variare un po' la conversazione tra un viaggio e l'altro. Ho impacchettato tutto al grammo, il violino sta volta me lo porto sulla spalla, che fa tanto figo e la gente ti guarda come se lo sapessi davvero suonare. Attraverso i controlli stancamente, quel contatto umano sgradito da entrambi i partecipanti, ormai non ci si guarda più nemmeno negli occhi, non c'è più sentimento. Forse dovrei tagliarmi la barba una volta tanto.
In aereo dormo come sempre dal momento in cui tocco il sedile a quando l'accelerazione vince la gravità, giusto per vedere il susseguirsi di momenti perfetti vissuti scivolare via tra i fili d'erba della pista, l'estenuante pianura diventare macchia ed in infine il mare di lava bianca e spumosa. Attendo il saluto delle Alpi, che ora si presentano giallastre sotto il sole serale. Scompaiono sotto nuvole veloci, il Bel Paese si fa lontano di nuovo, con le sue pozzanghere e la sua ostilità. Sfreccia via Milano, con la sua archietettura così squadratamente fascista, i suoi angoli che ti esplodono in faccia senza preavviso, i suoi muri scritti da Sesto San Giovanni al Duomo. Sfreccia via Roma, con le sue fermate della metro poco utili, le macchine perennemente in coda e le rovine di uno splendore che fu che ti impediscono di tornare a casa col sacchetto della spesa rotto. Scivolano vie le fermate della rossa, vecchia compagna di messaggi e bestemmie (solo a Conciliazione).
Stiamo atterrando, è il quarto tentativo, tira un vento che ci fa oscillare, dobbiamo rinunciare di nuovo. Non ho mai avuto paura degli allarmi, morirò in un incendio in una scuola. Chi mi sta accando piange dalla paura, è qualcosa che non capita spesso di vedere, l'incontrollabile tremolio di un corpo completamente in balia del panico, che si regge ai poggiabraccia per non muoversi troppo. Parte dal labbro, si incalana in un tremolio di guancia, infine sgorgano muco e lacrime, cerca di nasconderlo ma il tremolio lo paralizza, la paura dello schianto, del vento che riesci per fino a sentire fuori dal nostro spesso involucro di metallo, non è mai successo di dover provare l'atterraggio 5 volte, per forza stiamo per morire.
Siamo stati per due ore a diecimila metri da terra e hai paura ora che saremo a 30 metri massimo?
No, non ha aiutato. Si apre una cappelliera, una valigia scivola fuori con dei cappotti, penso che in fondo è un bene che il violino sia incastrato dietro a bagagli troppo grandi per essere a mano.
Alla fine tocchiamo terra, tutti respirano sollevati, cerco il segnalibro di quel libro, che mi scoccia perdere le cose, chissà dove cazzo è finito, è fastidioso dover usare la quarta di copertina dopo pagina 30. Niente.
Ritorno nella mia prigione con cucina condivisa, attendendo risposte che mai arriveranno, perché in fondo ora saremo troppo lontani, voi e me intendo, perché qualunque risposta possa colmare questi chilometri messi controvoglia quando mi stavo abituando nuovamente al piacere del carboidrato gratuito, al chiamare i posti col nome della via, alle bandiere gialle rosa ed arancio.
Sale con poco preavviso la rabbia su di me, che non ho mai reagito ad un allarme e morirò in un incendio in una scuola, la rabbia di doversene andare dal posto dove in realtà si vorrebbe stare, di non aver potuto affrontare la situazione a piene mani, di tornare epistolari con una vita ormai lontana. Quella rabbia che si ha tornando a casa e non sentendovicisi più, in una camera che non contiene più le tue cose, i tuoi pensieri. Che poi si finisce in un'altra camera che casa ancora non lo è anche se, fortunatamente, che tu lo voglia o no, lo diventerà. Monta dalle estremità e ti si piazza sul petto, provi a scacciarla con la violenza del tuo respiro, rimane, non scompare, devi colpire qualcosa, devi prendere la pioggia di faccia. Niente. Ti si è incastonata dentro, come il passato che non puoi cancellare, come il dramma che sconfiggi quotidianamente chiamato routine. Ti accorgi che oramai di politica interna sai parlare come sai parlare di calcio, saper due nomi, un fatto qua e là e grossomodo puoi parlarne con chiunque per ore sembrando pure un mezzo esperto. La tristezza del non essere i soli, dell'indistinguibilità tra le due cose.
Svanisce grossomodo così come era arrivata, vibrante nelle tue membra pronte a scattare ma in fondo stanche. Guardi tutto bruciare, i lapilli son qualcosa che hai sempre apprezzato. Tornerai, casa tua non sai bene come definirla, ma in fondo è chi la popola che ti importa, che la si trovi tra le spine di birra ed i tavoli resi appiccosi da una media rovesciata o tra le fermate della rossa.
Qualcosa non ti renderà mai tranquillo, ma non ho mai avuto paura degli allarmi, morirò in un incendio in una scuola.
Ci sfonderemo di cibo a due passi da Lotto.
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