Questo vuole essere un post in risposta all'Argonauta che ha scritto queste belle parole. In realtà più che una risposta è una riflessione che mi ha portato a fare, e a scriverne spinto da quel fuoco lento di cui parlava, in merito al suo punto di partenza: scrittori si nasce. A dirla tutta ho avuto recentemente, per puro caso, un bel dibattito su analogo argomento e, sempre per puro caso, sono stato spinto a riflettere sulle parole di un professore non mio che sostenevano, in sostanza, che le scienze umane fossero più difficili di quelle naturali.
Parto brevemente da questo ultimo punto, tralasciando l'orrenda consuetudine di dire scienze umane, dicendo che non è una competizione: è normale riuscire in qualcosa e avere difficoltà in altro. Non esiste una classifica di difficoltà delle discipline proprio perché questa dipende prevalentemente dal grado di interesse che uno ha nel momento in cui vi si adopera. Analogamente non ha senso chiedersi chi fosse più genio tra Salvador Dalì e Richard Feynman. Son partito da qui proprio perché le parole di questo professore, che solitamente altri professori dicono nella versione opposta, si fondano su un grave errore nel nostro sistema educativo che ora proverò a esporvi.
Veniamo dunque alla risposta per l'Argonauta. Scrittori non si nasce, ma semplicemente per l'esistenza della necessità di imparare, sperimentare, mettersi in gioco. Mi sono sempre opposto a concetti come il, ben noto a chi fa fisica (credo), "sei portato a fare [nome attività]", un po' perché se fossi portato probabilmente farei meno fatica, un po' perché il rovescio della medaglia è che, per motivi a me sconosciuti e mai chiariti, non dovrei essere portato a fare altro. E credo sia brutto insegnare, perché se questo succede da piccoli lo vedo come un insegnamento (forse più un'installazione quasi permanente), alle persone che non possono fare qualcosa. Per carità, ci sono i geni che, nel mettersi a fare quello che fanno, danno un alito di sapere in più al loro mestiere, ma quelli sono, per l'appunto, geni, mosche bianche. Le persone normali, cioè tutti, possono in principio fare quello che vogliono.
Insegnare un concetto come la predisposizione ad una specifica attività limita enormemente il potenziale dell'espressione della mente umana, incanalandola in binari che non ha mai voluto e che, ancor peggio, qualcuno ha imposto sfruttando un ruolo, quello dell'insegnante o del genitore, che dovrebbe essere il più alto simbolo della generosità umana. Questo è esattamente il meccanismo che ha portato un buon numero di persone, ma dentro di me ho il sospetto che sia la maggior parte, a credere di non essere portato per la matematica e dunque mai ad impegnarsi con la stessa lena spesa per altre discipline. Sono sempre stato fin da piccolo un rompipalle che non ascolta le persone ma, ahimé, qualcosa riuscivano a farmi passare ed è per questo che io non so disegnare. Il mio compagno di banco alle elementari, per analogo motivo, non solo non sa disegnare ma non sa nemmeno contare troppo bene. Esasperando il discorso, quelli che non sono riusciti a rispondere alle domande di logica del concorso per insegnanti probabilmente non hanno nemmeno provato a ragionarci, perché nella loro testa non è quello che sono portati a fare.
Cosa fa quindi la differenza? Certamente l'insegnamento, che sia fatto in modo da ispirare il più disinteressato degli studenti, che indirizzi ma non costringa una mente in formazione a prendere una strada o abbandonarne un'altra. Tuttavia, tralasciando ovvi discorsi socio-economici che, proprio per la loro ovvietà, avrebbero una potente voce in capitolo, la differenza più netta, alla fine, la fa l'individuo esprimendo quella libertà che non gli è stata negata. L'espressione più genuina è probabilmente la capacità di saper accettare, anche a priori, l'eventualità del fallimento. Solo così forse sarà in grado di avere il coraggio di sperimentare, di sviluppare la testardaggine quando le cose vanno storte e la forza di ripartire quando questa testardaggine era al servizio di una fallace idea. Solo così quando troverà il suo prevedibile limite sarà in grado di assumersi ogni responsabilità.
La prima espressione matematica che mi sono inventato, me lo ricordo bene, l'ho inventata in terza elementare. La maestra, che per altro era una brava maestra, aveva detto ad un altro che era portato per la matematica. L'aveva detto come se, per qualche motivo, avesse un talento che tutti gli altri non potevano avere. Ricordo che pensai che non fosse il caso che una frase simile venisse detta ad uno dei più bravi, ma piuttosto a chi era più in difficoltà, come incoraggiamento. Presi un foglio da disegno, i cari Fabriano che sei obbligato a comprare, lo misi in orizzontale ed iniziai a scrivere una serie di numeri ed operazioni di ogni genere. Dopo due righe e mezzo misi un uguale e la mostrai alla maestra all'inizio dell'intervallo. Mi disse che ci voleva troppo per risolverla. A fine intervallo io, che non ero portato, avevo trovato il risultato che si rivelò essere giusto il giorno dopo. Da quel giorno ho smesso di ascoltare troppo la gente, ho sviluppato una fastidiosissima arroganza e supponenza che solo col tempo ho ridotto (di poco, mi piace pensare, con arroganza, di saperle sfoderare nei momenti più opportuni) e ho dovuto aspettare il liceo prima di avere di nuovo un compito a casa di matematica che richiedesse qualche particolare sforzo intellettivo. Oddio, più che altro dovetti cambiare il modo di impegnarmi. Oggi sto, toccatina, per finire la mia tesi di fisica teorica. Le materie scientifiche mi han regalato i voti scolastici migliori solo quando iniziai a distrarmi parecchio in altre materie, più per l'insegnante (ancor più per la mia pigrizia, ma la pigrizia ce la mettevo in tutto con la stesso impegno) che per la materia in sé.
Oggi non bado più alla lunghezza delle equazioni, ho imparato sulla mia pelle che mi fottono in qualunque forma.
Ancora mi da fastidio non saper disegnare, non so fare un sacco di cose nel mio campo, tuttavia disegnare è la cosa che mi brucia di più.
Parto brevemente da questo ultimo punto, tralasciando l'orrenda consuetudine di dire scienze umane, dicendo che non è una competizione: è normale riuscire in qualcosa e avere difficoltà in altro. Non esiste una classifica di difficoltà delle discipline proprio perché questa dipende prevalentemente dal grado di interesse che uno ha nel momento in cui vi si adopera. Analogamente non ha senso chiedersi chi fosse più genio tra Salvador Dalì e Richard Feynman. Son partito da qui proprio perché le parole di questo professore, che solitamente altri professori dicono nella versione opposta, si fondano su un grave errore nel nostro sistema educativo che ora proverò a esporvi.
Veniamo dunque alla risposta per l'Argonauta. Scrittori non si nasce, ma semplicemente per l'esistenza della necessità di imparare, sperimentare, mettersi in gioco. Mi sono sempre opposto a concetti come il, ben noto a chi fa fisica (credo), "sei portato a fare [nome attività]", un po' perché se fossi portato probabilmente farei meno fatica, un po' perché il rovescio della medaglia è che, per motivi a me sconosciuti e mai chiariti, non dovrei essere portato a fare altro. E credo sia brutto insegnare, perché se questo succede da piccoli lo vedo come un insegnamento (forse più un'installazione quasi permanente), alle persone che non possono fare qualcosa. Per carità, ci sono i geni che, nel mettersi a fare quello che fanno, danno un alito di sapere in più al loro mestiere, ma quelli sono, per l'appunto, geni, mosche bianche. Le persone normali, cioè tutti, possono in principio fare quello che vogliono.
Insegnare un concetto come la predisposizione ad una specifica attività limita enormemente il potenziale dell'espressione della mente umana, incanalandola in binari che non ha mai voluto e che, ancor peggio, qualcuno ha imposto sfruttando un ruolo, quello dell'insegnante o del genitore, che dovrebbe essere il più alto simbolo della generosità umana. Questo è esattamente il meccanismo che ha portato un buon numero di persone, ma dentro di me ho il sospetto che sia la maggior parte, a credere di non essere portato per la matematica e dunque mai ad impegnarsi con la stessa lena spesa per altre discipline. Sono sempre stato fin da piccolo un rompipalle che non ascolta le persone ma, ahimé, qualcosa riuscivano a farmi passare ed è per questo che io non so disegnare. Il mio compagno di banco alle elementari, per analogo motivo, non solo non sa disegnare ma non sa nemmeno contare troppo bene. Esasperando il discorso, quelli che non sono riusciti a rispondere alle domande di logica del concorso per insegnanti probabilmente non hanno nemmeno provato a ragionarci, perché nella loro testa non è quello che sono portati a fare.
Cosa fa quindi la differenza? Certamente l'insegnamento, che sia fatto in modo da ispirare il più disinteressato degli studenti, che indirizzi ma non costringa una mente in formazione a prendere una strada o abbandonarne un'altra. Tuttavia, tralasciando ovvi discorsi socio-economici che, proprio per la loro ovvietà, avrebbero una potente voce in capitolo, la differenza più netta, alla fine, la fa l'individuo esprimendo quella libertà che non gli è stata negata. L'espressione più genuina è probabilmente la capacità di saper accettare, anche a priori, l'eventualità del fallimento. Solo così forse sarà in grado di avere il coraggio di sperimentare, di sviluppare la testardaggine quando le cose vanno storte e la forza di ripartire quando questa testardaggine era al servizio di una fallace idea. Solo così quando troverà il suo prevedibile limite sarà in grado di assumersi ogni responsabilità.
La prima espressione matematica che mi sono inventato, me lo ricordo bene, l'ho inventata in terza elementare. La maestra, che per altro era una brava maestra, aveva detto ad un altro che era portato per la matematica. L'aveva detto come se, per qualche motivo, avesse un talento che tutti gli altri non potevano avere. Ricordo che pensai che non fosse il caso che una frase simile venisse detta ad uno dei più bravi, ma piuttosto a chi era più in difficoltà, come incoraggiamento. Presi un foglio da disegno, i cari Fabriano che sei obbligato a comprare, lo misi in orizzontale ed iniziai a scrivere una serie di numeri ed operazioni di ogni genere. Dopo due righe e mezzo misi un uguale e la mostrai alla maestra all'inizio dell'intervallo. Mi disse che ci voleva troppo per risolverla. A fine intervallo io, che non ero portato, avevo trovato il risultato che si rivelò essere giusto il giorno dopo. Da quel giorno ho smesso di ascoltare troppo la gente, ho sviluppato una fastidiosissima arroganza e supponenza che solo col tempo ho ridotto (di poco, mi piace pensare, con arroganza, di saperle sfoderare nei momenti più opportuni) e ho dovuto aspettare il liceo prima di avere di nuovo un compito a casa di matematica che richiedesse qualche particolare sforzo intellettivo. Oddio, più che altro dovetti cambiare il modo di impegnarmi. Oggi sto, toccatina, per finire la mia tesi di fisica teorica. Le materie scientifiche mi han regalato i voti scolastici migliori solo quando iniziai a distrarmi parecchio in altre materie, più per l'insegnante (ancor più per la mia pigrizia, ma la pigrizia ce la mettevo in tutto con la stesso impegno) che per la materia in sé.
Oggi non bado più alla lunghezza delle equazioni, ho imparato sulla mia pelle che mi fottono in qualunque forma.
Ancora mi da fastidio non saper disegnare, non so fare un sacco di cose nel mio campo, tuttavia disegnare è la cosa che mi brucia di più.