Provate mai la sensazione di essere sul punto di esplodere?
Sapete, dopo lunghi periodi della vita in cui mi crogiolo in frivolezze e velleità, sospingendo la mia mediocrità da casa al lavoro, nel presunto eroico tentativo di vivere le due o tre vite che mi son cucito addosso, consapevole di non essere nemmeno lontanamente vicino al potenziale sporadicamente espresso, mi ritrovo nei pochi metri quadri che chiamo casa ad osservare i topi che si litigano l'insalata sul pavimento da qualche giorno. Faccio solo questo, li guardo sguazzare nelle macchie di vino e birra misto a cenere e rifletto sulla pochezza di una simile esistenza. Lontano da ogni cosa che ho sempre definito casa, immerso in quella che si presuppone essere la vita che mi costruisco.
Ecco, quello è il punto, il momento in cui esplodo di voglia di vivere. Quello è il momento in cui apprezzo il soprendente ardore vitale che mi pompa il sangue nelle vene, attiva milioni di idee nel mio cervello, rivalutando, analizzando, risolvendo ogni singolo problema che ho affrontato e che potrei mai dover affrontare. Non è questo, sia chiaro, questo è il momento in cui verso del vino rosso e riempio la stanza di fumo e B.B. King. Questo potrebbe essere tranquillamente annoverato tra i momenti descritti nel primo capoverso. Sempre che capoverso sia la definizione adatta. Non sono nemmeno così sicuro. Ma siam qui mica per prenderci sul serio, per dio, state cazzeggiando su internet.
La verità è che se non scrivo non sugello la gioia di vivere in qualcosa che un giorno posso andarmi a riguardare, ricordando ogni commento, discussione e dialogo che queste poche righe potrebbero mai suscitare, soprattutto se non produrranno nulla da ricordare. Perché sempre di gioia in fondo si tratta, per quanto miserabile possa essere lo stato d'animo lasciato trasudare, non c'è nulla che in fondo mi dia più piacere di vedere la pagina riempirsi, inseguendo le dita via via più agili, aggrovigliandosi in una metadescrizione dell'attimo. Più che il vibrare delle corde sotto l'archetto, più dell'adrenalina di infilare dei guantoni e provare a sopravvivere alcuni minuti di fronte a qualcuno ben più preparato ed in forma di te e sì, a volte pure più della sicurezza che l'equazione tanto sudata si sia rivelata corretta.
Sinistro, destro, evita il sinistro di risposa, colpisci il mento e scaraventa ogni violenza accumulata su quell'unico, liberatorio, gancio appena sotto le costole. Sinistro in allontanamento, non deve capire nemmeno da che parte sei andato. Respira.
Sarebbe dovuta essere la soluzione, fin dal principio.
Esplodere dunque, apprezzare veramente ogni cosa, per quanto ben mascherata forse in un alone di triste solitudine e, ammettiamolo, genuino se pur occasionale disprezzo per se stessi. Per avere finalmente un fugace sguardo verso la lucida follia che si è contribuito a creare intorno a se stessi.
Ad esempio, quando, durante il cammino, l'umanità ha deciso che le vite altrui, o ancor peggio l'immagine altrui della propria vita, dovessero avere una così ostentata rilevanza al punto da opprimere una già di suo stentata esistenza? In che momento è diventato tanto importante che persone bene o male estranee a ogni aspetto del nostro quotidiano sapessero quanto poco disgustosa sia la nostra vita? O anche che sapessero quanto lo fosse. Lavoro tanto, è giusto che la gente lo sappia. Che poi se arrivi a quantificare il tuo lavoro tanto direi che hai sbagliato occupazione. Faccio del bene, è giusto che la gente lo sappia. Non accetterò che qualcuno non informato possa farsi un'opinione sbagliata del mio quotidiano, non trovi interessanti le piccole avventure che decido di esporre al pubblico giudizio, non sia d'accordo con me. Non dico che sia sbagliato, mi incuriosisce il perché, una domanda forse banale di cui francamente mi sfugge la risposta, per quanto ne possa rimanere inconsapevolmente coinvolto. Che si faccia per suscitare invidia? Per un senso di giustizia verso i propri sforzi (e, di nuovo, se son sforzi stai sbagliando qualcosa)? Per l'approvazione di persone con cui, il più delle volte, non condivideremo nemmeno un vodkalemon annacquato?
Guardiamoci in faccia, facciamo del nostro meglio, il più delle volte. Fine. Trasciniamo sollazzi spesso inutili, aspettando con quanta più dignità che morte sopraggiunga. E questa è pura, indiscriminata, felicità. Sapere di riuscire a veleggiare sospinti da quel vento e non da altri ripieghi.
Per altro la aspettiamo perfino nella speranza che, dopo cotanto dolore per arrivarci, essa, l'ultimo passaggio, ne sia totalmente privo. Di dolore intendo.
Farà un male cane. Fa un male cane tutte le volte.
Sapete, dopo lunghi periodi della vita in cui mi crogiolo in frivolezze e velleità, sospingendo la mia mediocrità da casa al lavoro, nel presunto eroico tentativo di vivere le due o tre vite che mi son cucito addosso, consapevole di non essere nemmeno lontanamente vicino al potenziale sporadicamente espresso, mi ritrovo nei pochi metri quadri che chiamo casa ad osservare i topi che si litigano l'insalata sul pavimento da qualche giorno. Faccio solo questo, li guardo sguazzare nelle macchie di vino e birra misto a cenere e rifletto sulla pochezza di una simile esistenza. Lontano da ogni cosa che ho sempre definito casa, immerso in quella che si presuppone essere la vita che mi costruisco.
Ecco, quello è il punto, il momento in cui esplodo di voglia di vivere. Quello è il momento in cui apprezzo il soprendente ardore vitale che mi pompa il sangue nelle vene, attiva milioni di idee nel mio cervello, rivalutando, analizzando, risolvendo ogni singolo problema che ho affrontato e che potrei mai dover affrontare. Non è questo, sia chiaro, questo è il momento in cui verso del vino rosso e riempio la stanza di fumo e B.B. King. Questo potrebbe essere tranquillamente annoverato tra i momenti descritti nel primo capoverso. Sempre che capoverso sia la definizione adatta. Non sono nemmeno così sicuro. Ma siam qui mica per prenderci sul serio, per dio, state cazzeggiando su internet.
La verità è che se non scrivo non sugello la gioia di vivere in qualcosa che un giorno posso andarmi a riguardare, ricordando ogni commento, discussione e dialogo che queste poche righe potrebbero mai suscitare, soprattutto se non produrranno nulla da ricordare. Perché sempre di gioia in fondo si tratta, per quanto miserabile possa essere lo stato d'animo lasciato trasudare, non c'è nulla che in fondo mi dia più piacere di vedere la pagina riempirsi, inseguendo le dita via via più agili, aggrovigliandosi in una metadescrizione dell'attimo. Più che il vibrare delle corde sotto l'archetto, più dell'adrenalina di infilare dei guantoni e provare a sopravvivere alcuni minuti di fronte a qualcuno ben più preparato ed in forma di te e sì, a volte pure più della sicurezza che l'equazione tanto sudata si sia rivelata corretta.
Sinistro, destro, evita il sinistro di risposa, colpisci il mento e scaraventa ogni violenza accumulata su quell'unico, liberatorio, gancio appena sotto le costole. Sinistro in allontanamento, non deve capire nemmeno da che parte sei andato. Respira.
Sarebbe dovuta essere la soluzione, fin dal principio.
Esplodere dunque, apprezzare veramente ogni cosa, per quanto ben mascherata forse in un alone di triste solitudine e, ammettiamolo, genuino se pur occasionale disprezzo per se stessi. Per avere finalmente un fugace sguardo verso la lucida follia che si è contribuito a creare intorno a se stessi.
Ad esempio, quando, durante il cammino, l'umanità ha deciso che le vite altrui, o ancor peggio l'immagine altrui della propria vita, dovessero avere una così ostentata rilevanza al punto da opprimere una già di suo stentata esistenza? In che momento è diventato tanto importante che persone bene o male estranee a ogni aspetto del nostro quotidiano sapessero quanto poco disgustosa sia la nostra vita? O anche che sapessero quanto lo fosse. Lavoro tanto, è giusto che la gente lo sappia. Che poi se arrivi a quantificare il tuo lavoro tanto direi che hai sbagliato occupazione. Faccio del bene, è giusto che la gente lo sappia. Non accetterò che qualcuno non informato possa farsi un'opinione sbagliata del mio quotidiano, non trovi interessanti le piccole avventure che decido di esporre al pubblico giudizio, non sia d'accordo con me. Non dico che sia sbagliato, mi incuriosisce il perché, una domanda forse banale di cui francamente mi sfugge la risposta, per quanto ne possa rimanere inconsapevolmente coinvolto. Che si faccia per suscitare invidia? Per un senso di giustizia verso i propri sforzi (e, di nuovo, se son sforzi stai sbagliando qualcosa)? Per l'approvazione di persone con cui, il più delle volte, non condivideremo nemmeno un vodkalemon annacquato?
Guardiamoci in faccia, facciamo del nostro meglio, il più delle volte. Fine. Trasciniamo sollazzi spesso inutili, aspettando con quanta più dignità che morte sopraggiunga. E questa è pura, indiscriminata, felicità. Sapere di riuscire a veleggiare sospinti da quel vento e non da altri ripieghi.
Per altro la aspettiamo perfino nella speranza che, dopo cotanto dolore per arrivarci, essa, l'ultimo passaggio, ne sia totalmente privo. Di dolore intendo.
Farà un male cane. Fa un male cane tutte le volte.