mercoledì 23 maggio 2012

Quel giorno, in breve

Faccio parte di quelli che quel giorno era abbastanza grande da ricordarsi quei giorni, quell'anno. Che oggi siano passati 20 anni è solo il peso del mio invecchiamento, un invecchiamento che si fa sentire e solo alcuni ricordi rimangono nitidi.


Ricordo che stavo cenando.
Ricordo il tg5 che parlava lontano nel salotto.
Ricordo di un telecomando.
Ricordo di un'autostrada che per quel telecomando non c'era più.
Ricordo l'aria pesante, come se fossimo tutti in quel polverone a Capaci.
Ricordo la parola mafia, è possibile fosse la prima, ma certamente non più della quinta, volta che la sentivo.
Ricordo di un frigorifero usato come segnale.
Ricordo di un piccolo casolare, se così si può definire, arrampicato sulla montagna, se così si può definire.
Ricordo la corsa a chi diceva più Kg di tritolo.
Ricordo lo smarrimento.
Non ricordo il tuo volto prima di quel giorno, ma ricordo quel sorriso, intravisto da qualche parte, probabilmente un ricordo successivo lì collocato, ad hoc, per rendere quel ricordo, fumoso come se tra quelle macerie ci fossimo ancora, più fluido.
Ricordo che avevi un amico.

Ricordo che avevan già deciso che nemmeno lui poteva vivere.


A quanto pare in Italia le cose si possono ricordare solo quando la cifra è tonda, che sia la volta buona che smettiamo di fare i paraculo e le cose cominciamo a ricordarcele per davvero.

giovedì 17 maggio 2012

Macao non serve

Essendo notizia ampiamente diffusa da giornali, telegiornali e social netuorc (principale, ma fortunatamente non unica, fonte di utenti per queste virtuali pagine) non voglio impiegare righe per esporre la successione dei fatti che han visto l'occupazione e successivamente lo sgombero di un grattacielo di 33 piani abbandonato da 15 anni in pieno centro di Milano. Quello di cui voglio parlarvi è l'atmosfera, voglio parlarvi delle sensazioni che si provano a buttarcisi dentro. Se ci riuscirò, come i bei tempi, lo scopriremo in fondo alla pagina.

Ho avuto la fortuna di vedere ambodue le configurazioni in cui questo movimento collettivo di milanesi e non è presentato dentro la città, due momenti molto diversi ed isolati che quindi certo non potrebbero mai cogliere la moltitudine di sfumature che si presentano a ritmo frenetico da un paio di settimane in quel quartiere. Un quartiere che quando ero piccolo era un luogo morto, malfamato, con brutti giri di criminalità organizzata e che negli ultimi anni, grazie anche alla appena citata criminalità, ha ricoperto con una patina invisibile il marciume, facendo sbocciare piazzette illuminate e terrificanti ecomostri che la città chiama grattacieli. Qui arriviamo al primo punto che va ad intaccare il concetto espresso dal titolo, il quartiere, ma direi la città tutta, non sapeva che quell'enorme palazzo era vuoto da anni, non sapeva che era in stato di totale abbandono. Quindi Macao è servito ad evidenziare che probabilmente sarebbe convenuto sistemare quei 33 piani, piuttosto che costruirne dei nuovi a poche decine di metri di distanza. L'occupazione di una proprietà di Ligresti è certamente interpretabile come cosa buona e giusta, come rivincita da parte di una città che da Ligresti si è fatta divorare, anno dopo anno. Un atto così spudoratamente sognatore, così esagerato, che ha risvegliato la fantasia della gente, vero motivo dell'enorme visibilità e dell'enorme seguito che gli occupanti hanno avuto fin dal primo giorno.

Se ci entravi venivi preso a pugni da quell'abbandono, dall'atmosfera cupa, l'aria pesante, la decadenza, una rappresentazione di quella che comunemente magari viene definita la periferia, dentro un palazzo di acciaio, vetro e cemento armato. E venivi preso a pugni dalla voglia di fare di chi c'era dentro, che impiegava il suo tempo e le sue energie per sistemare, pulire, rendere agibile, financo accogliente, quella periferia in pieno centro. Una voglia di fare che ti contagiava e anche se eri andato lì solo per dare un'occhiata, anche se faceva un caldo fottuto, anche se non conoscevi nessuno e di certo non sei incline ad interagire (uno a caso eh), ti mettevi a lavorare, per un'ora o per un giorno, per farne parte anche tu, per poter dire che eri lì quando quel piano è stato aperto.

Poi arrivò il prevedibile e istituzionalmente doveroso sgombero ed è lì che, a mio avviso, macao è nato davvero, rendendosi inutile. Hanno svuotato un palazzo, riempiendo una strada, facendola diventare una piazza sempre piena di gente che discute, propone, suona, canta, balla, beve. Una moltitudine di volti e storie si sono riversate in quello spazio pubblico rendendolo enorme, infinito. La musica improvvisata univa le persone in un abbraccio a chi danzava. Il sorriso pervadeva ogni discorso e in poco tempo ti scordi perfino di avere accanto un gigantesco mostro di 33 piani accanto, la torre smette di esistere, la torre ora è la strada, la strada ora è la piazza. Ed è in quel rito orgiastico ricoperto dalla sera di Milano che ti rendi conto che Macao non serve più, ritrovarsi con convivialità ed esprimere la propria arte, il proprio talento, come meglio credi lo puoi fare ovunque. Macao è solo il nome di molti volti, molti volti che fanno esattamente quello che avrebbero potuto fare da sempre, essere liberi. Perché non stai facendo niente di male, stai solo ridando vita ad un luogo, il luogo dei tuoi pensieri e della tua fantasia. Macao è servito solo a ritrovare il piacere di fare cultura (parola un po' troppo abusata di questi tempi, me ne rendo conto, come se mancasse la cultura dell'utilizzo della parola cultura). Macao non serve perché ce l'hai dentro, Macao ti ha fatto vedere che è possibile, che è normale, quasi naturale, esprimere quello che hai dentro. Macao non ha nessun volto, li ha tutti, non ha una linea, le ha tutte, può essere tutto e non sarai mai niente di definito. È questa la sua forza, la sua bellezza, il suo messaggio.

La prova del nove di Macao (che ora, per quanto ho detto, è solo il nome per identificare il tutto) sarebbe forse quella di trasformarsi in itinerante, invadendo la città, togliendo ogni dubbio che sia un'idea, o meglio un mucchio aggrovigliato di idee, che si regge in piedi solo sull'inerzia e sul gusto di disobbedire. Vogliamo testare quanto siamo invicibili? Torniamo a casa e ripresentiamoci più numerosi di prima, facciamo vedere che non è solo la moda del momento, facciamo vedere che abbiamo imparato ad esser liberi, a creare anche col niente quello che ci fa stare bene.

Poi ci sono tutti i eh ma chissà chi c'è dietro, eh ma sono solo un branco di radical chic, eh ma sono la solita nicchia sinistroide che fa casino, i centri sociali. Poi, insomma, ci sono quelli che non capiscono, quelli troppo pigri ed impauriti di trovarsi bene per venire a respirare quell'idea condivisa e mai comune. Lì si vedrà se supererà anche la prova che, ahimé, molti movimenti dal basso non han saputo superare: quella del dissenso. Insomma il saper ascoltare e non bollare come crumiribastarditraditorireazionari chiunque esprima una voce che non sia un ossequiso sichefigataprendiancheilmioprimogenito.

È appena cominciata questa storia, solo superando tante piccole ed importanti prove si libereranno davvero le idee e si creerà qualcosa di più che una gioviale festa in città, arrivando perfino alla tanto desiderata diffusione della cultura. Oppure rimarrà solo una gioviale festa in città, una cosa che alla città non può che fare bene.
Libertà è avere la possibilità di dare fastidio a qualcuno.

domenica 13 maggio 2012

Morte di un poeta

Quando lo incontrò ebbe la stessa impressione che aveva chiunque incrociasse il proprio cammino con lui, uno spiantato, che viveva alla giornata, nella nullafacenza. Non escludo che una definizione simile non fosse sbagliata, ma, si sa, alle volte andare più a fondo nelle questioni poteva rivelare bellezze insperate.

Capita di rado di incrociare una storia che, per quanto di breve durata, riesca a cambiare ogni evento che seguirà quell'incontro, questo 18 lo sapeva e certo la sua scarsa inclinazione alla ricerca di nuove relazioni umane non aiutava. Ma erano lì, soli come i papaveri rossi che crescono lungo la ferrovia, circondati da tutto. La pioggia era di quelle fini e taglienti che ti bagna in profondità ed il suo ombrello era abbastanza grande per accoglierli entrambi. I capelli neri ed incolti si incollavano sul viso rendendolo come incrinato, triste.
In fondo non ci devo parlare per forza se gli faccio spazio sotto l'ombrello, pensò.

Scusami, vuoi ripararti qui sotto? Il pullman ci metterà un bel po' prima di arrivare.

Oh no, grazie. Stiamo parlando.

Non so spiegare come quel breve scambio di battute, all'insegna del nonsense, avesse potuto dare il via a uno dei più decisivi incontri della vita di 18 ed in fondo non è questo quello che conta davvero, il giorno dopo uno dei due sarebbe morto. Il giorno dopo sarebbe rimasto, indelebile, solo il messaggio. 31 era un poeta ed un poeta sa sempre decidere quando morire, aveva scelto quel giorno e niente poteva cambiarlo.

La sua poesia non era scritta, la sua poesia era nell'incessante ricerca di un modo di lasciare qualcosa che resistesse anche solo 5 minuti al vento del passato. Quella ricerca era diventata il suo abisso, un abisso dal quale adorava nutrirsi, senza sosta, facendosi trascinare in posti lontani che la gente che gli scorreva intorno non poteva vedere, non voleva capire. Per questo era evitato dai più, nonostante un aspetto non sgradevole, trasandato si, ma non sgradevole, non più di un qualunque giovane presunto alternativo che si poteva trovare in una qualunque città. Lo evitavi perché è così che istintivamente ti comporti verso qualcosa che non capisci e nel suo caso emanava una magnetica felicità che di certo non sapevi spiegare. Uno così, che viveva in equilibrio sui bordi della società, rifiutando con inconsapevole cocciutaggine ogni costrutto artificioso che la società aveva imposto dalla metà dell'ottocento a questa parte, non poteva essere felice, non poteva avere la nostra felicità. Era una persona che si crogiolava nel profondo abisso dei propri pensieri e che il più delle volte in cui apriva bocca lo faceva per parlare a se stesso, al vento, alla pioggia, ad un lampione o ad un rifiuto caduto fuori da un cestino, sfuggendo al proprio destino. Dunque era sorprendente come una persona così, per così dire, chiusa in un mondo esterno a quello in cui viviamo, riuscisse ad essere così trasparente alla vista. Un rapido scambio di battute, tanto bastò perché 18 sapesse con sufficiente profondità chi aveva incontrato, tanto bastò ad entrambi per instaurare, quella sera e solo per quella sera visto come è finita poi, una sincera amicizia. Parlarono molto, sorseggiando ognuno il proprio intruglio alcolico preferito, molto diversi anche in questo. 31  nella vita voleva esagerare, sempre, non importa in cosa, ma non voleva intraprendere niente senza la consapevolezza che avrebbe esagerato, arrivando al limite estremo delle sue azioni e dei suoi pensieri. Solo così, diceva, riusciva a combattere l'opprimente futilità delle cose: esagerare, sempre, anche nella moderazione, anche nella banalità se necessario. Certo, se si rendeva necessario troppo spesso avresti avuto lo stesso peso nella storia dell'umanità di un tubetto di colla stick impiegato per rinforzare un ponte già solido, ma non tutti avevano, come lui, l'ossessione di lasciare qualcosa dietro di sé.
Non lo sentì mai lamentarsi, in tutta la sera. La sua tequila faceva schifo, glielo si leggeva negli occhi, ma anche di questo non si lamentò, si limitò a cambiare intruglio, cercandone uno più schietto, che sapesse prendergli a schiaffi il cuore. Non si lamentò della politica, non si lamentò dell'economia, non si lamentò di una deriva della società che portava la cultura ad essere sempre più solo un arma per farsi una inconsueta scopata. Non per ignoranza, ma per rifiuto, non aveva bisogno di struttura nella sua vita e probabilmente era convinto che la struttura fosse necessaria solo quando ci si dimentica la genuinità dell'emozione e dell'animo umano. Aveva anche una profonda cultura, fatta di esperienze di vita e non solo di studio, lo si capiva perché, se un qualche genere di conoscenza doveva emergere nel discorso, non emergeva mai in maniera didascalica, mai innaturale. La sudava insieme ai fumi della tequila, mentre ti parlava, la cultura dico. Non aveva mai perso un attimo a lamentarsi, lasciandosi molto più tempo per pensare, molto più tempo per agire, fallendo il più delle volte e sapendo apprezzare ogni singolo fallimento come sincera espressione della sua libertà.

Avevano finito da bere e ognuno di loro si godeva il tenue sfrigolio che solo la carta di una sigaretta appena incendiata sapeva produrre. 
Non mi resta un ultimo messaggio da lasciarti, disse 31 all'improvviso gettando tra mille lapilli la sigaretta in mezzo ad una curva, vivere è per la maggior parte della gente un furibondo susseguirsi di cose superflue, finalizzato al produrre altri individui che portino avanti il superfluo. Per quei pochi, in cui ho l'arroganza di includermi, che hanno capito questo semplice concetto la vita si riduce ad una battaglia sempre più estenuante contro un mondo dentro se stessi fino a trovare una felicità che non sanno descrivere e che dunque non possono donare a quel mondo da cui sono scappati. Ecco, quella è la fine del viaggio, lo è in maniera così lampante che si decide semplicemente di spegnersi. Ti ringrazio tanto di avermi saputo ascoltare, hai fatto il tuo primo passo da solo, questo ti causerà sì dei problemi, ma ti piaceranno.

Furono le sue ultime parole, si spense, come aveva detto, come aveva voluto. Una macchina sbandava più in là, recuperando con fastidioso stridore l'aderenza perduta, e lui si spense guardandola, seduto appoggiato ad un muro scrostato qualunque, guardandola in lontananza. Con gli occhi aperti, il gomito appoggiato sul ginocchio, un piccolo sorriso che da alcuni punti di vista pareva un ghigno di soddisfazione verso un mondo che non era riuscito a fargli rispettare le regole nemmeno in quell'ultimo, anonimo, momento. Morì facendo il rumore che fanno le farfalle nel piatto frinire del vostro campo. 18 lo guardava, era così insensatamente uguale a voi, era quella persona che voi non sarete mai. Nessuno riuscì mai a capire cosa gli aveva spento la testa, rimase per tutti un anonimo matto, morto in quella fanghiglia di cui si ricoprono le grandi città quando piove.

Esagerare, sempre, questo non lo seppe scordare.