Essendo notizia ampiamente diffusa da giornali, telegiornali e social netuorc (principale, ma fortunatamente non unica, fonte di utenti per queste virtuali pagine) non voglio impiegare righe per esporre la successione dei fatti che han visto l'occupazione e successivamente lo sgombero di un grattacielo di 33 piani abbandonato da 15 anni in pieno centro di Milano. Quello di cui voglio parlarvi è l'atmosfera, voglio parlarvi delle sensazioni che si provano a buttarcisi dentro. Se ci riuscirò, come i bei tempi, lo scopriremo in fondo alla pagina.
Ho avuto la fortuna di vedere ambodue le configurazioni in cui questo movimento collettivo di milanesi e non è presentato dentro la città, due momenti molto diversi ed isolati che quindi certo non potrebbero mai cogliere la moltitudine di sfumature che si presentano a ritmo frenetico da un paio di settimane in quel quartiere. Un quartiere che quando ero piccolo era un luogo morto, malfamato, con brutti giri di criminalità organizzata e che negli ultimi anni, grazie anche alla appena citata criminalità, ha ricoperto con una patina invisibile il marciume, facendo sbocciare piazzette illuminate e terrificanti ecomostri che la città chiama grattacieli. Qui arriviamo al primo punto che va ad intaccare il concetto espresso dal titolo, il quartiere, ma direi la città tutta, non sapeva che quell'enorme palazzo era vuoto da anni, non sapeva che era in stato di totale abbandono. Quindi Macao è servito ad evidenziare che probabilmente sarebbe convenuto sistemare quei 33 piani, piuttosto che costruirne dei nuovi a poche decine di metri di distanza. L'occupazione di una proprietà di Ligresti è certamente interpretabile come cosa buona e giusta, come rivincita da parte di una città che da Ligresti si è fatta divorare, anno dopo anno. Un atto così spudoratamente sognatore, così esagerato, che ha risvegliato la fantasia della gente, vero motivo dell'enorme visibilità e dell'enorme seguito che gli occupanti hanno avuto fin dal primo giorno.
Ho avuto la fortuna di vedere ambodue le configurazioni in cui questo movimento collettivo di milanesi e non è presentato dentro la città, due momenti molto diversi ed isolati che quindi certo non potrebbero mai cogliere la moltitudine di sfumature che si presentano a ritmo frenetico da un paio di settimane in quel quartiere. Un quartiere che quando ero piccolo era un luogo morto, malfamato, con brutti giri di criminalità organizzata e che negli ultimi anni, grazie anche alla appena citata criminalità, ha ricoperto con una patina invisibile il marciume, facendo sbocciare piazzette illuminate e terrificanti ecomostri che la città chiama grattacieli. Qui arriviamo al primo punto che va ad intaccare il concetto espresso dal titolo, il quartiere, ma direi la città tutta, non sapeva che quell'enorme palazzo era vuoto da anni, non sapeva che era in stato di totale abbandono. Quindi Macao è servito ad evidenziare che probabilmente sarebbe convenuto sistemare quei 33 piani, piuttosto che costruirne dei nuovi a poche decine di metri di distanza. L'occupazione di una proprietà di Ligresti è certamente interpretabile come cosa buona e giusta, come rivincita da parte di una città che da Ligresti si è fatta divorare, anno dopo anno. Un atto così spudoratamente sognatore, così esagerato, che ha risvegliato la fantasia della gente, vero motivo dell'enorme visibilità e dell'enorme seguito che gli occupanti hanno avuto fin dal primo giorno.
Se ci entravi venivi preso a pugni da quell'abbandono, dall'atmosfera cupa, l'aria pesante, la decadenza, una rappresentazione di quella che comunemente magari viene definita la periferia, dentro un palazzo di acciaio, vetro e cemento armato. E venivi preso a pugni dalla voglia di fare di chi c'era dentro, che impiegava il suo tempo e le sue energie per sistemare, pulire, rendere agibile, financo accogliente, quella periferia in pieno centro. Una voglia di fare che ti contagiava e anche se eri andato lì solo per dare un'occhiata, anche se faceva un caldo fottuto, anche se non conoscevi nessuno e di certo non sei incline ad interagire (uno a caso eh), ti mettevi a lavorare, per un'ora o per un giorno, per farne parte anche tu, per poter dire che eri lì quando quel piano è stato aperto.
Poi arrivò il prevedibile e istituzionalmente doveroso sgombero ed è lì che, a mio avviso, macao è nato davvero, rendendosi inutile. Hanno svuotato un palazzo, riempiendo una strada, facendola diventare una piazza sempre piena di gente che discute, propone, suona, canta, balla, beve. Una moltitudine di volti e storie si sono riversate in quello spazio pubblico rendendolo enorme, infinito. La musica improvvisata univa le persone in un abbraccio a chi danzava. Il sorriso pervadeva ogni discorso e in poco tempo ti scordi perfino di avere accanto un gigantesco mostro di 33 piani accanto, la torre smette di esistere, la torre ora è la strada, la strada ora è la piazza. Ed è in quel rito orgiastico ricoperto dalla sera di Milano che ti rendi conto che Macao non serve più, ritrovarsi con convivialità ed esprimere la propria arte, il proprio talento, come meglio credi lo puoi fare ovunque. Macao è solo il nome di molti volti, molti volti che fanno esattamente quello che avrebbero potuto fare da sempre, essere liberi. Perché non stai facendo niente di male, stai solo ridando vita ad un luogo, il luogo dei tuoi pensieri e della tua fantasia. Macao è servito solo a ritrovare il piacere di fare cultura (parola un po' troppo abusata di questi tempi, me ne rendo conto, come se mancasse la cultura dell'utilizzo della parola cultura). Macao non serve perché ce l'hai dentro, Macao ti ha fatto vedere che è possibile, che è normale, quasi naturale, esprimere quello che hai dentro. Macao non ha nessun volto, li ha tutti, non ha una linea, le ha tutte, può essere tutto e non sarai mai niente di definito. È questa la sua forza, la sua bellezza, il suo messaggio.
La prova del nove di Macao (che ora, per quanto ho detto, è solo il nome per identificare il tutto) sarebbe forse quella di trasformarsi in itinerante, invadendo la città, togliendo ogni dubbio che sia un'idea, o meglio un mucchio aggrovigliato di idee, che si regge in piedi solo sull'inerzia e sul gusto di disobbedire. Vogliamo testare quanto siamo invicibili? Torniamo a casa e ripresentiamoci più numerosi di prima, facciamo vedere che non è solo la moda del momento, facciamo vedere che abbiamo imparato ad esser liberi, a creare anche col niente quello che ci fa stare bene.
Poi ci sono tutti i eh ma chissà chi c'è dietro, eh ma sono solo un branco di radical chic, eh ma sono la solita nicchia sinistroide che fa casino, i centri sociali. Poi, insomma, ci sono quelli che non capiscono, quelli troppo pigri ed impauriti di trovarsi bene per venire a respirare quell'idea condivisa e mai comune. Lì si vedrà se supererà anche la prova che, ahimé, molti movimenti dal basso non han saputo superare: quella del dissenso. Insomma il saper ascoltare e non bollare come crumiribastarditraditorireazionari chiunque esprima una voce che non sia un ossequiso sichefigataprendiancheilmioprimogenito.
È appena cominciata questa storia, solo superando tante piccole ed importanti prove si libereranno davvero le idee e si creerà qualcosa di più che una gioviale festa in città, arrivando perfino alla tanto desiderata diffusione della cultura. Oppure rimarrà solo una gioviale festa in città, una cosa che alla città non può che fare bene.
Libertà è avere la possibilità di dare fastidio a qualcuno.
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