lunedì 7 gennaio 2013

Una storia d'amore

Un tunnel, una serie di giorni più o meno mangerecci, in cui invecchi, invecchia pure quell'altro più famoso, cambi calendario. Una sorta di mondo incantato ti circonda tenendoti lontano dal mondo finché bam, dannata epifania.

L'aria frizzante del mattino è qualcosa di tonificante, un tiepido sole si affaccia timido dalle case dietro ai binari. Tutti silenziosi attendiamo il carrozzone di metallo che, fischiando, rallenta come solo lo stridore del metallo consente di fare. Il momento dopo sei lì, nello stretto corridoio che fieramente divide i sedili, in piedi insieme ad altri ad osservare chi, fortunato, si è seduto. Una fortuna guadagnata con l'esperienza e con l'attesa, un privilegio che solo l'arbitrarietà del caso può distribuire, un privilegio che osservi con quella punta di invidia, stretto tra la moltitudine di pendolari che ti sostiene nei cambi di velocità in un abbraccio dato malvolentieri ma non per questo meno rassicurante.

Lo vedo, era in fondo alla carrozza e si avvicina inesorabile con il passo di chi cammina col fango fino alle ginocchia, con lo sguardo di chi spera di trovare spazio nella testa del treno, di chi non ha un posto dove andare ma crede che il suo diritto di andarci sia in qualche modo più importante di chi sta lì e sopporta silenzioso l'abbraccio di estranei. Ora è a 2 persone di distanza, mi sporgo in avanti, premendomi contro l'apposito sostegno cui reggersi come da indicazioni e trasformando quell'angusto corridoio nel passaggio più comodo possibile per te, cavaliere errante del diritto mal riposto.

È dietro di me, pare di partorire, un parto in cui il nascituro dispettoso si ferma sulla soglia e sta lì, a riflettere sul cosmo e sulla vita probabilmente. All'improvviso sopraggiunge la consapevolezza, seguita da uno smarrito terrore: quell'animale maledetto in giacca e cravatta, con la sua sciarpa di cashmere carica di vigliaccheria, non voleva passare, voleva il mio posto. Si, il bastardo ha visto da lontano il mio sguardo gentile e ha deciso arbitrariamente che solo un gran posto poteva infondere cotanta serenità. Ha meditato a lungo su quale tattica adottare, dissimulando una improbabile marcia verso una terra promessa e poi, una volta accertatosi del mio spostamento, vestendo l'abito di chi si accorge dell'assurdità del tutto si ferma a leggere della carta piombata.

Oramai non provo altro che un cieco furore, sento i capillari degli occhi che pulsano, la visuale periferica si oscura.

Che sia un infarto?

No, mai avere infarti mentre si sta in diagonale su un treno di pendolari, lo sanno tutti, sono le regole.

Potrei tirargli una gomitata, di quelle date con lo slancio e cariche di quantità di moto, lì sul cervelletto, osservare le sue ginocchia piegarsi e sulla sua carcassa senza più energie sedermi. Se lo facessi abbastanza in fretta potrei farlo passare come un nuovo sedile. No, non sarebbe giusto, di certo qualcuno si accorgerebbe del movimento improvviso. Meglio affidare la cosa ad una mistica danza delle lame, con una veloce torsione del busto posso portarmi a tiro della sua arrogante carotide e regalargli una morte carica di una misericordia che non merita. No, poi dovrei comunque giustificare 4 litri buoni di sangue arterioso sui miei compagni di viaggio.

Intanto che valuto il punto migliore per recidere vasi sanguigni meno pirotecnici di questa feccia della società il bagliore industriale mi segnala che la mia fermata è giunta. Per questa volta è salvo, meglio così: la prossima volta che ti incontrerò, perché succederà, godrò nel vedere la tua vita spegnersi in fondo a quegli occhi che chiedono pietosi e ipocriti cosa mai si può aver fatto per meritare tanta silenziosa ferocia.

Io starò in piedi, ad osservarti morire senza patetici suoni, a guardarti con lo sguardo di chi dice: Lo sai perché, fellone, lo sai.

La nostra routine è dalla mia parte e sarà la tua fine.

1 commento:

  1. Mai provato a sedermi, non ci provo più. Al ritorno, invece, ora è una pacchia!

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