domenica 20 ottobre 2013

Emozione Libera

Ieri, 19 ottobre, a Milano si sono celebrati i funerali laici di Lea Garofalo, testimone (non collaboratrice, testimone) di giustizia uccisa dal marito mafioso. La storia di Lea l'ho raccontata a chiunque abbia incontrato, perché credo sia la storia più terribile che abbia mai sentito, intrecciata com'era nella vita di sua figlia, Denise. L'ho raccontata e non riesco a scriverla, perché è un orrore talmente forte quello che sento nelle ossa che non credo di riuscire a reggere un racconto che rimanga nell'aria per più di qualche secondo.

L'evento di ieri più che per Lea era per quella fortissima ventenne che è Denise, una vita sotto protezione, una vita rubata da una violenza di uomini che si vogliono definire d'onore e che a volte nell'immaginario collettivo entrano come criminali, ma con onore. Leggetevi quella storia, fino in fondo, poi ditemi quanto onore possono avere bestie simili. Ma mi son lasciato trasportare, volevo dire altro, l'evento di ieri l'ho seguito da 2000 km di distanza e credo che per una volta valga la pena di gettarsi alle spalle la consueta corazza e provare a mettervi due righe, per una volta vorrei provare a trasmettere quell'emozione. Mi manca quel (poco) che facevo in Libera, era un qualcosa di quotidiano, di frustrante perché impalpabile ai più, ma era capace di trasmettermi quel brivido lungo gli arti, quel brivido che ti ricorda che non sei vuoto, che c'è qualcosa dentro di te e quel qualcosa ti può dare la forza di fare un passo in più e così via. Con Libera è veramente cominciato tutto sui campi confiscati a Polistena, un uragano di sensazioni nuove, un uragano che non finisci mai di descrivere, un uragano che mi portò qualche mese dopo a Torino, due giorni insieme alla grande famiglia di Libera. Poi cominciò il quotidiano, la mini responsabilità affidatami e con esso i duecentomila problemi, la frustrazione che ti può dare l'indifferenza della gente che non riesci a scalfire, ma sempre, sempre per davvero, un gesto, una fatica, che riusciva a darti la forza di affrontare la frustrazione successiva o la riunione inconcludente successiva. È lì che mi sono chiesto il perché ed è lì che è nata l'idea per questo post.

Libera non è l'unico modo di far antimafia, ci sono altre associazioni e anche modi di fare antimafia nel proprio privato, ma è sicuramente un modo di fare antimafia che ti porta ad esperienze decisamente nuove e profonde. Quella profondità è la stessa che ti spinge, come un fuoco quasi eterno, a raccontare a chiunque quello che hai sentito, perché in fondo è la cosa più genuina che puoi trasmettere. Puoi riportare informazioni che hai imparato, altre che ti sei trovato da solo, ma in fondo sai che è quella mole di emozioni che ti sta facendo continuare con passione e vuoi, ne hai bisogno, che anche altri sentano quelle emozioni, perché si attivino (anche solo nel loro piccolo, come te) e raccontino a loro volta. Questo, per me, è il modo di vincere la battaglia culturale contro la mafia, ricordare alle persone che c'è un cuore pulsante in questa Italia cancerosa.

Dunque dicevo ieri, una piazza gremita, uno streaming saltellante e i miei occhi a mezz'asta. Me ne stavo in piedi in università, perché solo da lì lo streaming poteva essere almeno saltellante, me ne stavo in piedi con le cuffie e cercavo di capire cosa stava succedendo. Si salutava una donna che è un esempio di coraggio, si salutava una madre di una figlia ventenne che sta dimostrando giorno dopo giorno di avere lo stesso identico coraggio. Una figlia che non vogliamo lasciar sola, un errore che si è già commesso con Lea. Una piazza che è un abbraccio ad una bara, un abbraccio istituzionale e popolare di una città che vuole dire basta a questa melma che le scorre nelle vene da quarantanni. Io me ne stavo in piedi, perché avrei voluto contribuire, perché avrei voluto esserci e abbracciare ogni singola persona persona presente. Fremevo, non potevo stare fermo, ero felice, ma ero triste, relegato altrove. Triste di non poter testimoniare la mia vicinanza con la mia presenza. Avevo fatto il possibile nei giorni scorsi, il possibile da qui, mail, chiamate, inviti, appelli, racconti. Ma no, non era abbastanza, non lo è mai. Avrei voluto consegnare le bandiere IO VEDO, IO SENTO, IO PARLO, avrei voluto far le foto ai balconi che le esponevano, avrei voluto prenderlo quel costosissimo aereo che avevo trovato per tornare e ripartire in giornata. Invece stavo lì, in piedi, pieno di energie e sonno, con le cuffie ascoltavo tratti di quel che succedeva. Poi chiama Denise e solo scriverlo mi ridà quel brivido. Denise, dalla sua vita nascosta, in un giorno durissimo, da l'ennesima dimostrazione di quanto grande sia il suo spirito e chiama. Poche frasi alla piazza, poche ne riesco a sentire per lo meno. Il brivido si concentra intorno agli occhi. Piango, copioso. Ricordandomi ogni istante di violenza di quella storia, ricordandomi come ha dovuto vivere Denise, con un padre e un fidanzato assassini di sua madre, falsi, subdoli, violenti. Bestie. Sono lacrime di rabbia, di dolore infuso. Piango e tutti mi guardano, ma continuo, come se fossi in quella piazza, non posso nasconderlo. La rabbia di sentire dentro la pelle l'ennesima storia di una vita spezzata da un potere che non combattiamo abbastanza, un potere criminale che vive nei nostri silenzi e nei nostri sguardi miopi. Piangevo ed ero felice, perché quella piazza non poteva più essere miope, quella piazza poteva iniziare a parlare. A Genova potevo controllarmi, lì no, era una ragazza, giovane, da sempre privata di una vita, che ci gettava addosso il suo coraggio. Eroi, di solito le persone così le chiamiamo eroi.

Poi arrivano le foto, vi vedo nella folla, vedo le vostre foto. Sono felice.
Telefono.
È stato incredibile, non puoi capire.

È vero, non posso, ma l'ho sentito.

Grazie Lea. Grazie Denise. Grazie, ragazze e ragazzi di Libera. Grazie, maledetta Milano.

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