Una stanza vuota, il tavolo nascosto sotto le carte, i muri bianchi ed immacolati, una sedia buttata per caso, un cavalletto, macchie sul pavimento consumato. Il sole entrava prepotente dalle ampie finestre, si diffondeva repentino in ogni angolo, fin quasi ad appiattire la scena. La profondità doveva venire da dentro. Dipingeva nutrendosi d'aria, di storie impresse in attimi rubati dalla vita, di antidolorifici disciolti in bicchieri di latte, perché la bellezza, in ogni forma, immaginata o scolpita con la grafite e il pelo di bue, avrebbe sempre richiesto il suo tributo. Il passato veniva accumulato in angusti sgabuzzini ormai pieni di polvere e minuscole forme di vita che avidamente ne erodevano i contorni. Si lasciava riempire dalla luce fin dalle prime ore, ne osservava e descriveva i giochi, cercando di carpirne i segreti, cercando di capire la notte.
Osservava il bianco uniforme della propria vita con la felicità di chi ha uno sgabuzzino pieno d'acari, si immergeva nella vita come corpo estraneo, spiando, assorbendo i colori altrui, talvolta financo inquinandone l'invecchiamento. Tornava nella sua bolla di luce a vomitare dalle dita ogni fermo immagine, a curare le ferite col suo latte speciale, a stipare il suo sgabuzzino fino al limite estremo.
Ogni storia ha bisogno di un motore, ogni tela di una spinta dopo i sedativi. A lui non mancava, al punto che la grande casa di vuoto ormai aveva solo quella stanza, ogni giorno senza sosta, inalando i colorati respiri della vita spiata faceva. Una rivalità, quello era il motore, una frustrazione verso chi avrebbe sempre mosso le mani sul bianco meglio di lui, verso chi non riempiva solo stanze, verso chi non creava solo sgabuzzini, verso chi non consumava la luce con gli occhi, verso chi non meritava quella luce.
Sorso.
Tutto si offuscava, avrebbe smesso di sporcare la luce inalata, avrebbe creato quel candore, l'ultimo, che lo circondava dentro di sé.
Un pennello affilato, un pennello speciale, il pennello del riscatto, copiose macchie comparivano sotto l'impeto del suo lavoro, movimenti decisi, ad imprimere la propria libertà di essere più di chiunque, più di ogni cosa, per un'ora come per tutta la vita. Delineava contorni, sfumava luci riflesse e fatte ormai proprie.
Ecco. Raggiunta quella bellezza, quella di cui per anni ha abbozzato maldestre prove ora accatastate in ogni luogo. Gli ultimi ritocchi si fanno con un sorriso. Il gran finale di un crescendo. Alla faccia di quel bastardo.
Sorso. Intorpidimento. Troppe aggiunte a questo latte. Ma che colori caldi questo tramonto!
I paramedici chiamati dai vicini allarmati dal cattivo odore dovettero chiamare i pompieri per aprirsi un varco tra le cataste di tele e blocchi intonsi, non sapevano nemmeno dire se ci fossero dei mobili. Lo trovarono seduto verso la finestra con l'ennesima tela bianca sul cavalletto, il viso consumato in una smorfia sorridente. Una rossa pozza secca tutto intorno a lui, adagiato sulla sedia nudo, il sole riempiva uniforme e violento ogni angolo, nessuno notò con quanta cura si era premurato che ogni schizzo sul proprio corpo fosse esattamente dove doveva essere. Di quanto armoniosa fosse la posizione del bisturi sul pavimento. Nessuno lo notò, distratti dal bianco impolverato tutto intorno a loro.
Nessuno.